mercoledì 1 dicembre 2021

Economia di guerra

 



Lo schieramento delle truppe russe al confine con l’Ucraina e le esercitazioni ricorrenti dei velivoli della Nato su quella frontiera rappresentano segnali evidenti del pericolo di un conflitto imminente. Sono dimostrazioni di forza e di efficienza militare come le manovre terminate il 22 novembre nel Mediterraneo dalla portaerei italiana Cavour e da quella britannica della Queen Elizabeth, entrambe dotate dei caccia bombardieri F35, adatti anche per l’attacco nucleare. Si rivela sempre più attuale, perciò, l’invito di Alex Langer che nel 1991 davanti al conflitto devastante della ex Jugoslavia invitava a cercare alternative possibili ai conflitti «se non vogliamo finire per arrenderci alle “guerre giuste”
 

 Come agire? Il criterio resta sempre quello di vedere, non voltare lo sguardo, cercare di capire, superando la tentazione della depressione e della sconfitta e poi fare la nostra parte per ribaltare un ordine ingiusto delle cose

Quindi non si tratta solo come è ovvio di prosciugare le fonti delle banche coinvolte nel sistema delle armi, un gesto necessario che di solito si propone per far capire cosa si può fare a partire dal singolo, ma di prendere di mira la politica economica e quella industriale del nostro Paese. 

 

L’impegno di coloro che hanno fatto approvare la legge 185/90 serviva ad attenuare l’attrattiva del settore bellico impedendo la vendita delle armi ai Paesi in guerra o che violano i diritti umani. L’artificio utilizzato per aggirare questa norma dettata per rispettare la Costituzione è stato funzionale ad una linea di politica industriale trasversale che dal 1996 ha comportato la conversione progressiva della produzione di Finmeccanica, ora Leonardo, dal settore civile a quello cosiddetto della difesa. Bisogna far riferimento a Gianni Alioti, per decenni responsabile dell’ufficio internazionale della Fim Cisl,per avere un quadro complessivo di quello che è avvenuto in oltre 20 anni nella società controllata dal ministero dell’economia per arrivare al ribaltamento della percentuale di produzione: dal 70% al 30% per il civile e viceversa.

Non sono leggi di natura ma scelte strategiche politiche come mi ha confermato in una lunga intervista a Città Nuova l’ex presidente di Confindustria Genova, Stefano Zara, che si è opposto invano allo smantellamento di comparti produttivi e di avanguardia in campo tecnologico della nostra industria pubblica e quindi moltiplicatoti di occupazione di qualità.

Tali scelte rientrano perciò in quel declino dell’Italia industriale descritto magistralmente da Luciano Gallino: dal comparto dell’elettronica a quello della tecnologia ferroviaria.

Come ribadisce Alioti si è voluta creare l’enfasi dell’innovazione della difesa magnificando il rapporto diretto con gli Usa che ci riconosce invece il ruolo di partner di secondo livello o di subfornitori come nel caso della  famosa commessa dei caccia bombardieri F35 che, da sempre, vedono tra i maggiori sostenitori centri di ricerca come la fondazione Icsa promossa dall’ex presidente Cossiga, dal generale Leonardo Tricarico e dall’ex ministro Marco Minniti che recentemente, come è noto, ha lasciato il parlamento per ricoprire un ruolo di vertice nella Fondazione Med Or promossa da Leonardo per   promuovere le relazioni con il Mediterraneo e l'Oriente, in particolare con programmi strutturali nell'ambito dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza.  Non è da trascurare la presidenza della Fondazione Leonardo da parte di Luciano Violante, ex presidente della Camera.

Come fa osservare Zara, ed è confermato da testi di storia industriale come quello dedicato a Finmeccanica da Vera Zamagni, dobbiamo risalire alla McKinsey, la più importante società di consulenza strategica al mondo, la scelta di orientare Finmeccanica verso il militare. Non si fa del facile complottismo se poi scopriamo che la stessa società è quella che ha redatto la Saudi vision 2030 e cioè l’ambizioso piano di sviluppo dell’Arabia Saudita, alleato di ferro degli Usa, primo acquirente mondiale dei sistemi di arma ma anche interessato ad un’internalizzazione della produzione bellica.

 

Si deve sempre alla grande competenza di Alioti l’analisi, con un periodo di osservazione di 40 anni (1980-2019), sull’esito fallimentare della scelta italiana di non partecipare al progetto europeo di aviazione civile ( l’ Airbus costruito da Francia, Spagna e Germania) che ha prodotto la crescita degli occupati in Europa  da 197 mila a 405 mila unità, mentre il comparto militare ha visto una diminuzione da 382 mila lavoratori a 160 mila addetti. Eppure ad esempio l’ex amministratore di Finmeccanica Mauro Moretti insisteva sulla necessità di “alimentare” le migliaia di dipendenti passati, nel frattempo, dai 75 mila del 2010 agli attuali 50 mila (valori mondiali: da 43 mila a 31 mila in Italia).

Spostandoci su un altro esempio e cioè sulla società Fincantieri, anche questa sotto controllo pubblico, si può notare che un comunicato come quello del primo maggio 2020 che annunciava nuove commesse di navi da guerra richieste alla sua controllata Marinette  Marine da parte degli Usa e dell’Arabia Saudita comporta un incremento del fatturato globale ma non dell’occupazione in Italia e della precarietà dell’indotto.

Senza tralasciare il fatto che l’Italia ha venduto tramite Fincantieri due fregate Fremm all’Egitto per battere la concorrenza francese in vista di una commessa ancor più grande da quel Paese che risulta già il nostro maggior acquirente di armi nel 2020 come sottolinea l’analisi di Maurizio Simoncelli di Iriad.

Nonostante il caso della morte di Giulio Regeni e la persecuzione di Patrick  Zaki, la violazione dei diritti umani e il coinvolgimento del governo del generale al Sisi nel conflitto in Libia.  

D’altra parte la logica che prevale è quella esposta apertamente dal presidente dell’associazione delle aziende della difesa e aerospazio Guido Crosetto e dal generale Morabito della scuola di difesa della Nato in una conferenza del centro studi Machiavelli per giustificare la necessità di essere presenti sul mercato delle armi dell’Arabia Saudita perché altrimenti la concorrenza prenderà il nostro posto: «se non lo facciamo noi lo faranno altri perché le guerre non finiscono grazie alle nostre buone intenzioni di non volerci sporcare le mani». È istruttivo perciò visitare il sito dedicato al World defense Show Saudi Arabia previsto per il prossimo 22 marzo 2022 così come quello previsto in Egitto dal 29 novembre al 2 dicembre 2021.

 

 

Quando si parla di conversione economica, perciò, non si tratta di indicare la fattibilità tecnica a partire da singole industrie. Ci sono esempi eclatanti durante  questa pandemia di linee di produzione convertite da quella missilistica a quella dei ventilatori polmonari.

La questione centrale resta la volontà di investire in certi settori al posto di altri e con quale strategia.

Un caso concreto è quello dell’Industria italiana autobus, di cui Leonardo possiede tuttora il 30% del capitale della società nata dalla fusione tra l’ex Breda Menarini di Finmeccanica e l’ex Iribus campana della Fiat. Non è forse il trasporto pubblico ecologico una leva di crescita anche secondo le linee di Industria 4.0?

Cosa impedisce a Leonardo Finmeccanica di orientare gli investimenti in questo ambito come moltiplicatore di occupazione e crescita industriale di avanguardia? Non rappresenta una missione interessante per Invitalia? E cioè per l’Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa presieduta da Arcuri?

Non dovrebbe sempre Invitalia investire nel Sulcis iglesiente su produzioni alternative a quelle bombe della Rwm? Di fatto chi sta cercando creare una filiera libera dalla guerra è il comitato riconversione Rwm che è riuscito a stabilire rapporti importanti co altre associazioni tedesche costituendo la rete di imprese War free.

Sono esperienze emblematiche che cozzano tuttavia con una linea di politica industriale ed economica che marcia in direzione opposta. Lo mette in evidenza il testo del comunicato del Consiglio superiore di Difesa del 27 ottobre 2020, dove si ribadisce l’importanza «degli investimenti della Difesa che favoriscono lo sviluppo dell’intero Sistema Paese e fungono da traino soprattutto nei settori ad elevata tecnologia». Lo stesso Consiglio definisce l’UE e la NATO «fondamentali per la pace e la prosperità dei popoli in un contesto reso più instabile dagli effetti della pandemia». Quella stessa Alleanza atlantica in base alla quale siamo obbligati a tenere sul nostro territorio decine di bombe nucleari.

Si comprende perciò, l’importanza di dichiarare l’Italia libera dalle armi nucleari così come richiesto dall’iniziativa promossa da 44 associazioni cattoliche nazionali a sostegno della campagna “Italia ripensaci” che chiede al nostro Paese di aderire al trattato internazionale del 2017 di abolizione delle armi nucleari.  

“Ripensaci”, come a dire che c’è un altro modo di stare al mondo ripudiando l’orrore della guerra per poter decidere cosa produrre, come produrre e per chi produrre

I fondamenti di una democrazia economica senza la quale non si regge la nostra convivenza civile

 

 

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