Nel 2003 milioni di persone scendono in piazza per
fermare la guerra in Iraq ma il complesso militar industriale se ne infischia.
Il movimento per la pace si trova davanti ad un dilemma antico. Lanciare
l’invito alla disobbedienza generale oppure accettare il fatto compiuto, con la
conseguenza di svuotare partecipazione e democrazia? L’attuale tragica percezione
di non contare nulla è il frutto di quel disincanto.
Caso
Rwm
Anche quando si viene a conoscenza che una azienda
italiana, situata in Sardegna, fabbrica ordigni destinati a colpire
indistintamente la popolazione civile dello Yemen, il moto prevalente nella coscienza
è la rimozione.
La Rwm Italia è controllata dalla Rheinmetall
tedesca, attore internazionale nel campo degli armamenti, che probabilmente
potrebbe spostare, come dicono alcuni analisti, la produzione di bombe in
Arabia Saudita, investendo nel Paese considerato, a ragione, l’Eldorado per i
venditori di armi. Stretti legami
geopolitici con gli Usa, oltre Obama o Trump, rappresentano la certezza di non avere
noie. A nulla valgono i rapporti degli esperti dell’Onu sui crimini di guerra
che si consumano, dal 2015, nel territorio yemenita conteso tra sfere di
influenza iraniane e saudite. A poco conducono le risoluzioni del Parlamento europeo
che invitano i Paesi membri a fermare il rifornimento di armi in atto. O
meglio, la civilissima Germania osserva tale limite nelle partenze dai propri
confini, ma delega a noi il compito scellerato, che dovrebbe essere vietato
dalla legge 185/90.
Un testo normativo che non è sceso dall’alto ma è
stato conquistato a caro prezzo da un pezzo di società attiva e responsabile. A
cominciare da quei lavoratori che pretendevano di lavorare senza contribuire ad
alimentare guerre e regimi disumani.
Probabilmente uno degli ultimi frutti postumi del “magnifico trentennio”
post conflitto mondiale che ha visto crescere diritti e benessere. Uno degli
obiettori alla produzione bellica nell’Aermacchi, Elio Pagani, mi ha parlato
degli operai che anche nelle assemblee cittadine intervenivano con la loro tuta
di lavoro, esibita come titolo di nobiltà.
Poteri
feudali
Ma come è noto nel dibattito economico politico, il
mondo delle aziende è stato definito la traccia più resistente di un potere
feudale, essenzialmente diseguale. Poter incidere su cosa, come e per chi
produrre resta sottratto alla volontà del dipendente. Quando si parla di
partecipazione, di solito si arriva a ipotizzare una parziale redistribuzione
degli utili.
E, invece, senza agire sulle leve economiche non
resta altro che la “magra potestà delle prediche” come diceva Giorgio La Pira. A
che serve il Piano Sulcis della Regione Sardegna se non fa convergere il meglio
della conoscenza e delle risorse per rispondere al ricatto di chi impone l’alternativa
tra lavoro e guerra? Cosa ci stanno a fare le università, i centri di ricerca,
le associazioni di diversa estrazione se non per agire assieme in un’opera di
riscatto umano prima ancora che nazionale?
Bisogna anche liberarsi dalla idea errata che basta
far conoscere il fatto clamoroso per incidere sull’opinione pubblica e produrre,
così, il cambiamento. Del caso bombe italiane allo Yemen se ne è parlato anche
in trasmissioni popolari come le Iene della Mediaset e in servizi di inchiesta
su organi nazionali, soprattutto dopo uno scoop del New York Times. Ma è proprio
la consapevolezza di non poter far nulla per cambiare il destino degli eventi a
produrre una grande rimozione, che è conseguenza di un malessere profondo.
Rincorrere con una macchina da presa un operaio per fargli dire che lui non
vuole perdere il lavoro, anche perché altri costruirebbero bombe al suo posto, è
fuorviante ma utile a confermare il giudizio pessimistico sull’essere umano.
Solo Tv2000 ha dato spazio adeguato alla famiglia
Isulu, dove Giorgio, padre di 4 figli, ha detto senza retorica alcuna che, dopo
aver perso il lavoro per un processo di delocalizzazione improvvisa, ha
rifiutato di essere assunto nella azienda che produce bombe per i sauditi. Ho
visto le foto delle manifestazioni operaie contro la chiusura della fabbrica di
provenienza di Giorgio, controllata da una società multinazionale: i lavoratori
apparivano con il volto coperto non per minacciare ma per paura di esporsi.
Cercavano invano di fermare il trasferimento degli impianti.
Battaglia
per una vera politica industriale
Esistono elementi per una diversa politica
industriale. Il contributo di analisi e proposta di esperti come Gianni Alioti
obbligano a ragionare sulle scelte compiute nel nostro Paese di rinuncia a
settori di alta tecnologia dove era all’avanguardia, con ricadute enormi in
termini di manca occupazione e deficit di investimenti nella ricerca, per far
posto a strategie di corto respiro nell’area della “difesa”. Ciò che si produce
in questo ambito ha bisogno di un mercato che va trovato sulle piazze
internazionali, come ci ha dimostrato l’operazione “Sistema Paese in Movimento”
del tour della portaerei Cavour tra penisola araba e continente africano,
intrapreso a fine 2013 alla vigilia dell’impennata delle importazioni di armi
dai Paesi dell’area. Come afferma
l’economista Luigino Bruni, «chi ha il potere di immettere sul mercato certi
prodotti ne induce anche il consumo. Bisogna reintrodurre e prendere coscienza,
in campo economico, della categoria del potere. Non esiste solo la libertà
astratta degli individui ma gli assetti di potere. Se si vuole cambiare bisogna
rimettere al centro un lavoro politico in senso alto, la necessita di lottare e
di fare “la buona battaglia”».
Oggi in Italia esiste una traccia eloquente di
questa “battaglia” nel percorso avviato dal maggio 2017 dal comitato per la
riconversione Rwm che ha il suo epicentro a Iglesias, in Sardegna, nei luoghi
dove l’azienda italiana controllata dai capitali tedeschi ha la sua base
operativa, ma genera legami a livello nazionale e internazionale perché
costituisce un caso di carattere universale. Ed è anche il punto più fragile
dove è possibile intaccare un sistema
basato sulla ineluttabilità della guerra. Sulla sua necessità e
giustificazione. Man mano, pubblicamente, hanno preso posizione contro la
produzione di bombe, settori ecclesiali, parlamentari europei e amministratori
regionali. Ma non basta enunciare un concetto per vederlo realizzato. Occorre agire sui fattori di cambiamento, come
cerca di fare il comitato per la riconversione che promuove incontri per una
diversa economia del territorio, accoglie delegazioni internazionali e
rappresentanti della società civile yemenita che resiste alla guerra e chiede
giustizia per le bombe su scuole e ospedali (ad agosto l’ultimo attacco contro
una scuola bus con decine di morti), l’epidemia di colera in corso scatenata
dal conflitto. Son segnali da cogliere per rigenerare una coscienza condivisa.
Non solo del movimento per la pace che è un fiume carsico pronto sempre a
riemergere, ma come un definitivo appello alla nostra umanità sul crinale
apocalittico della storia.
pubblicato su Solidarietà internazionale
pubblicato su Solidarietà internazionale
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