sabato 19 gennaio 2019

Poteri feudali e politiche industriali






Nel 2003 milioni di persone scendono in piazza per fermare la guerra in Iraq ma il complesso militar industriale se ne infischia. Il movimento per la pace si trova davanti ad un dilemma antico. Lanciare l’invito alla disobbedienza generale oppure accettare il fatto compiuto, con la conseguenza di svuotare partecipazione e democrazia? L’attuale tragica percezione di non contare nulla è il frutto di quel disincanto.

Caso Rwm  

Anche quando si viene a conoscenza che una azienda italiana, situata in Sardegna, fabbrica ordigni destinati a colpire indistintamente la popolazione civile dello Yemen, il moto prevalente nella coscienza è la rimozione.
La Rwm Italia è controllata dalla Rheinmetall tedesca, attore internazionale nel campo degli armamenti, che probabilmente potrebbe spostare, come dicono alcuni analisti, la produzione di bombe in Arabia Saudita, investendo nel Paese considerato, a ragione, l’Eldorado per i venditori di armi.  Stretti legami geopolitici con gli Usa, oltre Obama o Trump, rappresentano la certezza di non avere noie. A nulla valgono i rapporti degli esperti dell’Onu sui crimini di guerra che si consumano, dal 2015, nel territorio yemenita conteso tra sfere di influenza iraniane e saudite. A poco conducono le risoluzioni del Parlamento europeo che invitano i Paesi membri a fermare il rifornimento di armi in atto. O meglio, la civilissima Germania osserva tale limite nelle partenze dai propri confini, ma delega a noi il compito scellerato, che dovrebbe essere vietato dalla legge 185/90.
Un testo normativo che non è sceso dall’alto ma è stato conquistato a caro prezzo da un pezzo di società attiva e responsabile. A cominciare da quei lavoratori che pretendevano di lavorare senza contribuire ad alimentare guerre e regimi disumani.  Probabilmente uno degli ultimi frutti postumi del “magnifico trentennio” post conflitto mondiale che ha visto crescere diritti e benessere. Uno degli obiettori alla produzione bellica nell’Aermacchi, Elio Pagani, mi ha parlato degli operai che anche nelle assemblee cittadine intervenivano con la loro tuta di lavoro, esibita come titolo di nobiltà. 

Poteri feudali 
Ma come è noto nel dibattito economico politico, il mondo delle aziende è stato definito la traccia più resistente di un potere feudale, essenzialmente diseguale. Poter incidere su cosa, come e per chi produrre resta sottratto alla volontà del dipendente. Quando si parla di partecipazione, di solito si arriva a ipotizzare una parziale redistribuzione degli utili.
E, invece, senza agire sulle leve economiche non resta altro che la “magra potestà delle prediche” come diceva Giorgio La Pira. A che serve il Piano Sulcis della Regione Sardegna se non fa convergere il meglio della conoscenza e delle risorse per rispondere al ricatto di chi impone l’alternativa tra lavoro e guerra? Cosa ci stanno a fare le università, i centri di ricerca, le associazioni di diversa estrazione se non per agire assieme in un’opera di riscatto umano prima ancora che nazionale?
Bisogna anche liberarsi dalla idea errata che basta far conoscere il fatto clamoroso per incidere sull’opinione pubblica e produrre, così, il cambiamento. Del caso bombe italiane allo Yemen se ne è parlato anche in trasmissioni popolari come le Iene della Mediaset e in servizi di inchiesta su organi nazionali, soprattutto dopo uno scoop del New York Times. Ma è proprio la consapevolezza di non poter far nulla per cambiare il destino degli eventi a produrre una grande rimozione, che è conseguenza di un malessere profondo. Rincorrere con una macchina da presa un operaio per fargli dire che lui non vuole perdere il lavoro, anche perché altri costruirebbero bombe al suo posto, è fuorviante ma utile a confermare il giudizio pessimistico sull’essere umano.
Solo Tv2000 ha dato spazio adeguato alla famiglia Isulu, dove Giorgio, padre di 4 figli, ha detto senza retorica alcuna che, dopo aver perso il lavoro per un processo di delocalizzazione improvvisa, ha rifiutato di essere assunto nella azienda che produce bombe per i sauditi. Ho visto le foto delle manifestazioni operaie contro la chiusura della fabbrica di provenienza di Giorgio, controllata da una società multinazionale: i lavoratori apparivano con il volto coperto non per minacciare ma per paura di esporsi. Cercavano invano di fermare il trasferimento degli impianti.

Battaglia per una vera politica industriale
Esistono elementi per una diversa politica industriale. Il contributo di analisi e proposta di esperti come Gianni Alioti obbligano a ragionare sulle scelte compiute nel nostro Paese di rinuncia a settori di alta tecnologia dove era all’avanguardia, con ricadute enormi in termini di manca occupazione e deficit di investimenti nella ricerca, per far posto a strategie di corto respiro nell’area della “difesa”. Ciò che si produce in questo ambito ha bisogno di un mercato che va trovato sulle piazze internazionali, come ci ha dimostrato l’operazione “Sistema Paese in Movimento” del tour della portaerei Cavour tra penisola araba e continente africano, intrapreso a fine 2013 alla vigilia dell’impennata delle importazioni di armi dai Paesi dell’area.  Come afferma l’economista Luigino Bruni, «chi ha il potere di immettere sul mercato certi prodotti ne induce anche il consumo. Bisogna reintrodurre e prendere coscienza, in campo economico, della categoria del potere. Non esiste solo la libertà astratta degli individui ma gli assetti di potere. Se si vuole cambiare bisogna rimettere al centro un lavoro politico in senso alto, la necessita di lottare e di fare “la buona battaglia”».
Oggi in Italia esiste una traccia eloquente di questa “battaglia” nel percorso avviato dal maggio 2017 dal comitato per la riconversione Rwm che ha il suo epicentro a Iglesias, in Sardegna, nei luoghi dove l’azienda italiana controllata dai capitali tedeschi ha la sua base operativa, ma genera legami a livello nazionale e internazionale perché costituisce un caso di carattere universale. Ed è anche il punto più fragile dove è possibile  intaccare un sistema basato sulla ineluttabilità della guerra. Sulla sua necessità e giustificazione. Man mano, pubblicamente, hanno preso posizione contro la produzione di bombe, settori ecclesiali, parlamentari europei e amministratori regionali. Ma non basta enunciare un concetto per vederlo realizzato.  Occorre agire sui fattori di cambiamento, come cerca di fare il comitato per la riconversione che promuove incontri per una diversa economia del territorio, accoglie delegazioni internazionali e rappresentanti della società civile yemenita che resiste alla guerra e chiede giustizia per le bombe su scuole e ospedali (ad agosto l’ultimo attacco contro una scuola bus con decine di morti), l’epidemia di colera in corso scatenata dal conflitto. Son segnali da cogliere per rigenerare una coscienza condivisa. Non solo del movimento per la pace che è un fiume carsico pronto sempre a riemergere, ma come un definitivo appello alla nostra umanità sul crinale apocalittico della storia.  

pubblicato su Solidarietà internazionale 

Nessun commento:

Posta un commento

Post in evidenza

Kennedy e il vuoto di "Ciò che non è esprimibile"

  Perché rileggere oggi la scelta di John Kennedy nella crisi dei missili del 1962. La tragedia ucraina apre a scenari di guerra nucleare ...