martedì 17 settembre 2019

Senza profonde radici non si può fare vera politica


Un vecchio militantedel Pci di Taranto, che poi ha attraversato tutto il percorso travagliato della sinistra, mi ha detto che i giovani non potevano parlare in sezione, se non dopo aver dimostrato di essere credibili, andando, ad esempio, a vendere l'Unità casa per casa. 
Oggi, nella società geriatrica, ogni vagito giovanile viene accolto come fonte di chissà quali assicurazioni per il futuro.  
Da parte mia, mi sono sempre chiesto le ragioni della ignoranza diffusa tra i cattolici, fino alla rimozione di storie emblemtaiche come questa di Giuseppe Donati, quanto mai attuale e  che ho provato a riproporre sul numero di agosto 2019 di Città Nuova  


 «Odio i preti in sottana ma ancor più odio e mi fanno schifo i preti senza sottana, vilissimi guelfi, razza da estirpare». Il conte Galeazzo Ciano riportava, nel suo diario, una delle invettive lanciate dal suocero Benito Mussolini, duce del fascismo, il 3 giugno 1942, nel pieno del baratro della guerra mondiale dove l’ex socialista rivoluzionario aveva trascinato il popolo italiano.
A quella data erano passati oltre 10 anni dalla morte a Parigi, in esilio, di Giuseppe Donati, romagnolo di Faenza, cattolicissimo e quindi per niente clericale, coraggioso nel fare luce, con le sue inchieste, su due delitti eccellenti della nascente dittatura. La bastonatura a morte, su istigazione del gerarca Italo Balbo, nel 1923 del parroco di Argenta (Ferrara), don Giovanni Minzoni, vicino alle istanze dei braccianti agricoli. E la clamorosa eliminazione del deputato socialista Giacomo Matteotti, nel 1924. 


Proprio in questo caso, la denuncia di Donati del “quadrumviro” Emilio De Bono, secondo lo storico Giuseppe Ignesti, «consentì di mettere pubblicamente sotto accusa, di fronte al Senato costituitosi in Alta Corte di giustizia, il torbido ambiente che attorniava il gerarca e lo stesso Mussolini». L’ultimo atto che sembrò poter rovesciare la nascente dittatura. Come disse, anni dopo, il laico Gaetano Salvemini, si trattò del «solo atto di coraggio personale (temerario quanto si vuole, ma coraggio) che sia stato fatto nella campagna per l'affare Matteotti, mentre i deputati antifascisti si tenevano imboscati sull'Aventino».

Di Donati, direttore del quotidiano del Partito popolare si continua a parlare poco, nonostante le celebrazioni dei 100 anni dall’appello ai «liberi e forti». E in effetti nel 1919 l’ardimentoso giornalista era impegnato nel progetto alternativo di un “Partito democratico cristiano”(Pdc) improntato ad una forte autonomia dei cattolici nell’azione politica, con forti radici nella Lega democratica nazionale. Cristiani molto radicali in campo sociale, contrari agli accordi (patto Gentiloni) del moderatismo cattolico a favore dei deputati liberali in chiave antisocialista.  Nei loro vivaci congressi deliberavano di schierarsi con le classi popolari contro quelle dei privilegiati, con la Confederazione del lavoro e non con le Unioni professionali cattoliche interclassiste, pur restando fortemente polemici contro l’anticlericalismo di  massoni e socialisti.  Una posizione decisamente scomoda. 
Tracce della dialettica del tempo che arrivava fino alla polemica aperta verso i popolari, considerati troppo condizionati dalla presenza dei clerico conservatori al loro interno. E, in effetti, tale contraddizione emerse poco dopo, contro il parere di Luigi Sturzo, con la partecipazione di alcuni membri del Ppi al primo governo Mussolini del 1922, e alla loro adesione al regime. Quando il gioco si fece duro, con la spaccatura del Ppi nel 1923 e l’acuirsi della repressione dei circoli cattolici, don Sturzo si rese conto della necessità di affidare la conduzione del giornale di un partito ormai consistente, proprio a Giuseppe Donati, che nel frattempo aveva sciolto nel 1920 il Pdc per lo scarso consenso elettorale raggiunto della formazione contraddistinta dal simbolo dell’aratro.
L’azione decisa del direttore de Il Popolo lo espose a diverse minacce e ritorsioni che si scatenarono verso gli attivisti popolari, come  Francesco Luigi Ferrari, avvocato dei braccianti, ferito gravemente a Modena nel 1923, costretto ad espatriare per poi morire, 10 anni dopo, a causa dei danni permanenti delle percosse subite.
Forti pressioni portarono Donati a diventare, lasciando in patria la famiglia , un profugo politico varcando il confine francese il 10 giugno 1925 dopo che già Sturzo era stato costretto, nel 1924, a riparare a Londra.
Il temperamento combattivo del militante cristiano democratico lo portò a fondare giornali usando l’arma della scrittura, a creare forti alleanze tra i fuoriusciti italiani cercando, anche, di organizzare forme di lotta armata, con le squadre di azione antifascista, destinate ad infrangersi davanti alle manovre della polizia segreta del regime (l’Ovra) che aveva i suoi infiltrati a Parigi. La sua libertà di pensiero lo portò a salutare i patti lateranensi del 1929 come l’occasione di sanare il conflitto tra Stato e Chiesa, contro la visione di altri popolari, come Ferrari, che li considerarono, invece, una clericalizzazione della società. Per questa sua posizione Donati fu espulso dall’Unione tra i giornalisti italiani in esilio. Proprio lui che si era così esposto senza timore contro il fascismo. Il riacutizzarsi di una malattia lo trovò senza grandi risorse e sostegni (qualcosa fece Sturzo da lontano), tanto da finire i suoi giorni nell’agosto del 1931. Poche immagini ci mostrano il volto di un uomo baffuto, dalla postura ardita. Pezzi di storia da riscoprire.

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