lunedì 25 novembre 2019

Famiglia e giustizia sociale, una scissione impossibile




Un crocifisso operaio della fabbrica durante il corteo dei sindacati e lavoratori Whirlpool a Napoli, 31 ottobre 2019.
Siamo abituati ad accettare di trattare la questione della famiglia come terreno di lobby di parte piuttosto che come condizione per affonatare i noddi sociali fondamenatli. A partire dalla diseguaglianze crescenti
   
Partire senza retorica dalla vita delle famiglie per capire le diseguaglianze inaccettabili che ostacolano la nostra democrazia. Le politiche possibili     

Di Carlo Cefaloni

Quando si parla del grave declino demografico che affligge l’Italia (agli ultimi posti nel mondo), il discorso arriva inevitabilmente alla necessità di dare più soldi alle famiglie, tranne poi prendere nota degli inevitabili vincoli di bilancio.
Tuttavia c’è qualcosa di rudimentale in questa prospettiva di ingegneria sociale. Non si tratta, con tutto il rispetto, di migliorare la quantità di cibo di un allevamento da pascolo. E neanche ci si può illudere di invertire una rotta decennale concedendo illusoriamente qualche euro al soggetto familiare considerato come un centro di costo autonomo, staccato dalla società nella sua interezza.  

LA FORZA DELLA FRAGILITA’

Anche certe rivendicazioni delle ragioni delle famiglie, avanzate come se fossero separate dal contesto generale, rischiano di fare della famiglia una battaglia di parte, una bandiera confessionale agitata per recuperare consensi elettorali. Lo ha messo bene in evidenza Fulvio De Giorgi, storico della pedagogia, nel suo intervento del 2012 a Milano all’incontro mondiale delle famiglie promossa da Benedetto XV. Non si può affrontare la questione nella sua complessità «facendo proclami della famiglia come rimedio di tutti i mali, come una bandiera ideologica che deve dimostrare una realtà forte, robusta e in salute».  E allora che fare? Lo abbiamo chiesto a De Giorgi che ci ha risposto invitando a prendere coscienza che «spesso la famiglia sperimenta la debolezza e la difficoltà ma proprio in questa fragilità si rivela la sua forza nel non restare indifferente alla sofferenza altrui, nel sanare le ferite rispondendo concretamente alla desertificazione delle coscienze prodotta, come afferma papa Francesco, dalla “nuova e spietata versione del feticismo del denaro e della dittatura di una economia senza volto”».
 Intesa in questo modo la famiglia è il luogo che sa cogliere le conseguenze profonde di quella crescita delle diseguaglianze che segna il nostro Paese. Infatti, come nota ancora De Giorgi, «questi ultimi decenni di neoliberalismo dominante hanno incupito e in alcuni casi devastato i vissuti familiari, sia precarizzando il rapporto lavoro-famiglia sia minando dall’interno, con una sottile cultura di esasperato individualismo, la stabilità dello stesso rapporto coniugale». Per fare un esempio potremmo dire: a che serve aumentare di qualche decina di euro una detrazione fiscale se poi marito e moglie devono vivere rapporti di lavoro precari, che minano il futuro dei figli, e abitare in città invivibili dominate dalla speculazione o dall’inquinamento?  

LUOGO DI RESISTENZA DELL’UMANO

Come ha detto recentemente Giancarlo Bregantini, vescovo in prima fila nel combattere le mafie, «abbiamo perduto la battaglia della domenica come tempo liberato da consegnare alla relazione libera dal profitto». Il presule, con un passato di prete operaio a Porto Marghera, ne ha parlato all’incontro della Consulta nazionale anti usura riferendosi alla prassi dell’apertura continuativa dei centri commerciali anche nei giorni festivi, senza tempi di riposo condivisi nonostante le rivendicazioni sempre più blande dei dipendenti che non possono mettere in pericolo il posto. «Fuori da quella porta c’è la fila di persone pronte a sostituirti», è la frase che si usa in questi e altri casi che non generano più scandalo, soprattutto tra i più giovani. Il modello politicamente corretto che prevale è quello dell’accordo tra adulti consenzienti, senza un minimo di analisi delle condizioni di disparità tra chi dirige il lavoro e chi lo deve eseguire, due soggetti teoricamente liberi. 



Non è un caso che i sindacati tradizionali, in gran parte, non insistono su questo argomento che vede invece esposte le organizzazioni conflittuali come quelle che, nel quasi silenzio dei media, riescono a bloccare il settore della logistica delle merci. In questo ambito si trovano spesso lavoratori extracomunitari con legami familiari e comunitari sempre più rari tra gli italiani.  Come osservava nel 2012 una ricerca del sociologo Oscar Marchisio sui metalmeccanici a Bologna, la dinamica del rapporto sperimentato in famiglia predispone all’impegno e a prendersi cura dell’altro. Il contrario di quel familismo amorale ed escludente che secondo la versione diffusa costituisce la matrice mafiosa presente della società italiana e non solo. È consigliabile, in tal senso, la visione del film francese dei fratelli D’Ardenne,  “Due giorni e una notte”, che racconta la parziale ma progressiva presa di consapevolezza di umana dignità in una comunità di dipendenti di una piccola azienda davanti alla disarmante volontà di una giovane madre di famiglia che non vuole perdere il lavoro. Un narrazione nitida che sa offrire la radicalità, nella provvisorietà, dell’amore tra marito e moglie. Come dice ancora De Giorgi, «le famiglie si rivelano capaci di affrontare il nuovo totalitarismo materialistico del profitto secondo una logica della gratuità e del legame disinteressato che la tenerezza coniugale genera e custodisce».  La sociologa Chiara Giaccardi definisce la famiglia come « luogo di resistenza dell’umano alle diverse forme di colonizzazione, al mito dell’efficienza (la famiglia è il luogo dove non funziona niente), alla logica del contratto (e dei legami non scelti e irrevocabili): è una riserva di libertà («essa costituisce l’ostacolo naturale più forte contro l’assorbimento dell’individuo» scriveva Romano Guardini)».

FAMIGLIE SENZA PARADISI FISCALI  

La prospettiva familiare permette così di cogliere e cerca di rimediare ai punti di frattura della convivenza sociale, a partire dalle diseguaglianze inaccettabili che producono povertà, non solo materiale ma anche la guerra. È significativo in tal senso quanto ha detto Gigi De Palo, presidente del Forum delle associazioni familiari, con riferimento al grave attentato terrorista di Nizza del 14 luglio 2016 che ha provocato decine di vittime tra le tante persone, in particolare famiglie con bambini piccoli, che si trovavano in piazza a festeggiare : «alzare i muri davanti a queste tragedie non serve e non solo perché non fermano i signori del terrore ma perché non raggiungono le radici delle divisioni. Sotto il profilo educativo le famiglie dovrebbero lavorare nella società e insieme alla scuola per far capire che i muri non fermano l’odio, anzi lo fanno crescere. Nelle scuole e insieme alle scuole le nostre associazioni e famiglie proporranno e organizzeranno progetti di dialogo interculturale e interreligioso tra le famiglie. La pace si costruisce in casa ed a scuola».
Sembra maturo perciò il tempo per poter affrontare le gravi ingiustizie sociali che devono subire in Italia i nuclei familiari con figli come una delle conferme più eclatanti per dimostrare la necessità di operare forti cambiamenti nel segno della equità. A partire da questo dato di fatto, può ripartire un dialogo, senza veti reciproci, finalizzato a capire il modo migliore per intervenire efficacemente in tal senso, senza spot pubblicitari di breve effetto.
Una fotografia imbarazzante del nostro Paese è quella che ha fatto l’Oxfam quando ha messo in evidenza il possesso del 68 per cento della ricchezza nazionale concentrata nel 20 per cento della popolazione benestante. Addirittura l’1 per cento più ricco degli italiani possiede il 23,4 per cento della ricchezza nazionale. Questa frazione eletta di connazionali ha visto aumentare progressivamente il proprio reddito mentre negli ultimi 4 anni è più che raddoppiato (da 2,1 a 4,6 milioni) il numero delle persone in condizioni di povertà assoluta secondo l’Istat. Questo il quadro che ha visto inevitabilmente sempre più esposte le famiglie numerose.
Secondo una rigorosa analisi comparativa del nostro sistema fiscale con quello degli altri stati europei, effettuata per la Cgil da Lelio Violetti, del portale “Fiscoequo”, «un lavoratore dipendente singolo con un reddito di 40 mila euro paga di Irpef 1.428 euro in più dell’omologo spagnolo; 5.553 euro di quello francese; 6.688 euro di quello inglese e 6.855 euro di quello americano. Mentre una famiglia italiana con un reddito complessivo di 30 mila euro e con tre figli a carico paga di Irpef 728 euro di più dell’omologa famiglia spagnola; 1.728 euro di quella inglese; 4.623 euro di quella francese e 5.153 euro di quella statunitense».

NON SOLO QUOZIENTE FAMILIARE 
La regola costituzionale delle imposte è teoricamente quella della progressività che impone di operare ritenute sempre più elevate all’aumentare delle fasce di reddito. L’aliquota applicata sarebbe sempre più bassa fino a scomparire se il reddito venisse tassato dopo la sua distribuzione tra i familiari. Uno stipendio lordo di 30 mila euro diviso tra i coniugi e tre figli, ad esempio, corrisponderebbe teoricamente a 6 mila euro. Il funzionamento del quoziente familiare in Francia non è certo così semplice ma è molto più complesso. Sta di fatto che secondo una simulazione operata dal centro studi della Cgia di Mestre, in Italia una famiglia monoreddito con due figli a carico paga cinquemila euro di imposte ( 2.842 euro se i redditi sono due) mentre in Francia ne versa 313.
In Italia i figli entrano in gioco nel calcolo delle imposte come una detrazione, praticamente un importo da sottrarre all’importo lordo, che nei redditi bassi può essere più alta dell’imposta così calcolata. Che succede in questi casi? Si matura un credito verso il fisco? Certamente no. Le imposte si azzerano e basta. Chi resta buggerato da questo meccanismo si dice “incapiente” e appartiene alla fascia dei più poveri nella società. Per questa ragione pensare di agevolare il reddito delle famiglie aumentando le detrazioni per i figli a carico si rivela una strada che finisce per favorire, con questo sistema, coloro che possiedono i redditi più alti. Ogni sistema ha tuttavia degli effetti non previsti inizialmente. Ad esempio tornando all’analisi della Cgia di Mestre,  anche il quoziente familiare francese si rivela un sistema certamente più equo ma che diventa sempre più conveniente  con l’aumentare del reddito del nucleo familiare.


Secondo alcuni, come la Cgil, il metodo del quoziente porterebbe a scoraggiare l’occupazione per il coniuge con il reddito più basso (di solito la donna), peggiorando il tasso di occupazione femminile per incentivare il lavoro domestico e di cura familiare. Come ci ha detto Cristian Perniciano, responsabile delle politiche fiscali della Cgil nazionale, «uno dei fini più importanti di un sistema fiscale deve essere  quello delle redistribuzione, ancor prima che l'incentivo della natalità. Il fisco deve favorire, cioè, in primo luogo i redditi inferiori che riteniamo primi bisognosi di tutela. Crediamo sia giusto, a parità di reddito, alleggerire il carico familiare delle famiglie più numerose, ma non che il numero dei componenti del nucleo incida sul reddito imponibile». E come si risolve, secondo questa prospettiva, la questione degli incapienti? Secondo Perniciano una soluzione da esplorare è quella di unificare detrazioni e assegni familiari, ma «il  tutto deve essere valutato ponendo come elemento di maggiore importanza il reddito».
Secondo questa visione, che non appartiene solo al tradizionale sindacato di sinistra, il fisco deve essere separato dalle politiche sociali. Come ? Trasformando in trasferimenti diretti in denaro le varie agevolazioni fiscali (come le spese per istruzione, asili nido, assistenza ai disabili, ecc.) che avvantaggiano oggi anche i redditi più elevati.

Eppure questo confronto deve essere aggiornato alla novità della proposta da parte del Forum delle associazioni familiari del Fattore famiglia, un metodo di calcolo delle imposte che individua una soglia di “no tax area” che cresce con il numero dei componenti , adotta accorgimenti tali da non favorire i redditi più alti o scoraggiare il lavoro femminile e arriva a configurare per gli incapienti una tassazione a credito verso il fisco.  Il presupposto di questa proposta   sta nell’applicazione dell’articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Il fattore famiglia interviene per «stabilire sopra quale limite di reddito è ammissibile cominciare a pagare le imposte» dato che è «universalmente riconosciuto che oggi, in Italia, le imposte sono tali da spingere parecchie famiglie con figli sotto la soglia di povertà».

FATTORE FAMIGLIA. NON ELEMOSINA

Su questo modello che aveva destato interesse anche da parte dei critici del quoziente familiare si doveva parlare nella conferenza nazionale sulla famiglia del 2013 che non si è mai tenuta come ci racconta Riccardo Bonacina, presidente di Vita: «da oltre due anni nessuno ne parla più. Come pare esser calato il sipario sull’Osservatorio nazionale di cui sono formalmente il direttore, ma che ormai non viene convocato da tempo immemore». Eppure «qui ci vorrebbe davvero un Family act, ma purtroppo, occorre partire da un dato di fatto: in Italia non esiste una legge sulla famiglia. Esistono numerosi riferimenti alla famiglia in norme che riguardano altro, ma manca un quadro complessivo. E questo fa di noi un’eccezione nel panorama europeo. È la certificazione del mancato riconoscimento della centralità della famiglia, malgrado sia proprio essa il parametro fondamentale di molte decisioni socio-economiche del nostro Governo».
In effetti il “fattore famiglia” non è una richiesta di elemosina ma ha l’ambizione di proporre una linea complessiva non solo di politica tributaria perché, a fronte di un  minore introito fiscale di 14 miliardi di euro prevede una crescita dei consumi  per 11,7 miliardi, il recupero Iva per 2 miliardi e  altri 3,2 miliardi da altre imposte con la conseguenza, relativa all’economia reale, di creare 200 mila posti di lavoro e far superare la soglia di povertà ad un milione di famiglie.
Il progredire delle diseguaglianze predispone a far entrare in considerazione per un confronto pubblico anche proposte come il “reddito minimo universale” o “reddito di base” che sono state considerate finora aliene da ogni considerazione familiare perché basate sul diritto di ogni persona singola a percepire un reddito di base cumulabile con ogni altra forma di reddito.  Sembra una formula bizzarra e invece se ne discute seriamente perché, a conti fatti, eliminando ogni altra forma di sostegno e i costi burocratici dei controlli amministrativi le cifre sono teoricamente meno irrealizzabili. Pensiamo a cosa significherebbe assicurare un importo fisso ad ogni componente della famiglia, senza condizione alcuna, dalla verifica dell’isee all’accettazione di qualsiasi tipo di occupazione.
Qualsiasi tipo di intervento ipotizzato resta tuttavia una ipotesi di scuola davanti alla carenza di risorse pubbliche imposte da misure di austerità sempre più contestate nella loro coerenza e efficacia da molti economisti. Nel bilancio pubblico, inoltre, mancano le entrate di chi evade il fisco ed è a catalogato, per beffa, nella fascia più bassa dei redditi. Quindi, esclusi i provvedimenti di pura emergenza, un discorso realista sulle misure necessarie a contrastare diseguaglianze e povertà nelle famiglie, e quindi nella società, deve partire da alcune domande: Si possono non solo contestare ma cambiare le regole di austerità depressiva che ostacolano la crescita economica? Esistono ricette per colpire le rendite di posizione, l’evasione ed elusione fiscale di privati e società che si rifugiano nei paradisi fiscali? Si è in grado di fare un’analisi delle entrate e uscite dei bilanci statali per capire come dirottare certe spese a favore dei redditi familiari secondo criteri di giustizia sociale?

BENE COMUNE E INTERESSI PRIVATI

Il vero problema sta nel fatto che si è rinunciato da tempo a porsi questo tipo di domande per rinchiudersi in contese da condominio, mentre l’Istat continua registrare un gelo demografico paragonabile solo a quello delle guerre mondiali e la crescita degli indici di povertà. Nel 2015 la povertà assoluta ha raggiunto 4 milioni e 598 mila persone, il numero più alto dal 2005. Secondo la definizione dell’Istat, una famiglia è considerata assolutamente povera dall’Istat se sostiene una spesa mensile per consumi pari o inferiore ad una soglia di denaro corrispondente ad un paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia. I numeri parlano di oltre un milione di minori in condizioni di povertà assoluta.   Un vero smacco per l’identità   di un Paese che perde ancora tempo a parlare del mercato milionario  dei calciatori.
Nel luglio 2016, in coincidenza significativa con il comunicato dei dati Istat sulla povertà, il governo Renzi ha presentato, tramite il ministro del lavoro Poletti, lo strumento del Sia (Sostegno per l'Inclusione Attiva), in vigore da settembre: 80 euro mensili a persona, per un massimo di 400 euro nel caso di nuclei familiari con 5 o più componenti. Per ottenere questo importo occorre avere un Isee bassissimo (3 mila euro) e la presenza in famiglia di un minore o di un figlio disabile o di una donna in attesa. La dotazione complessiva è di 750 milioni di euro e dovrebbe coprire un numero di famiglie che si aggira tra  180 e 220 mila unità corrispondenti a massimo un milione di beneficiari, per metà minori. Nel 2017 la cifra stanziata dovrebbe raddoppiare andando a coprire il milione di minori in povertà. Si tratta di un tipo di misura già introdotta dal ministro del lavoro Giovannini con il governo Letta ma stavolta viene presentata come la premessa di un piano nazionale di lotta contro la povertà accompagnata dall’obbligo di seguire programmi di reinserimento lavorativo.
Davanti a certe scelte governative, i comunicati positivi, come quello della rete dell’Alleanza contro la povertà, sembrano molto pragmatici perché salutano una presa in carico del problema sperando in una svolta radicale dopo anni dove si è giunti anche ad azzerare il fondo per le politiche sociali. Pochi si oppongono alla necessità di dare sostegno a chi sta in condizioni estreme. Resta il fatto che si tratta, in sostanza, di una social card che cerca di alleviare parzialmente ( sono  4,6 milioni le persone in povertà assoluta) ad un emergenza, lasciando in sospeso la questione delle cause che ghermiscono sempre più da vicino coloro che sono nella fascia della povertà relativa, incapaci far fronte ad una spesa improvvisa perché già  al di sotto del livello di consumo medio pro-capite.
Gli 80 euro di Poletti si fermano al componente numero 5 della famiglia. E se c’è un quarto figlio?  Perché deve essere privato di questo aiuto estremo? Eppure nota Alfredo Caltabiano dell’ Associazione delle famiglie numerose, si tratterebbe di casi rari in un Paese a crescita sottozero, tali cioè da non incidere sul plafond stanziato dal governo. Persiste, anche nei dettagli, uno sfavore incomprensibile che va contro ogni logica di equità se non accettando la prospettiva di considerare i figli come beni privati di lusso che possono portare alla miseria. L’accanimento si vede poi in tanti altri aspetti che pesano nella vita ordinaria delle persone come il conteggio dell’Isee che penalizza le famiglie con figli, nel mancato aggiornamento della soglia del reddito lordo (2.850 euro) secondo cui una persona è a carico fiscalmente, nei costi insostenibili degli asili nido, tra l’altro insufficienti di numero.   Ma è proprio il binomio che associa figli a povertà che va contestato secondo Caltabiano partire dalla Costituzione. Non si possono considerare i cittadini che appartengono ad una famiglia solo come destinatari di assistenza sociale, mentre sono, invece, titolari di  diritti nonché  generatori di una ricchezza collettiva che sanno cogliere solo indicatori come il Bes, il benessere equo e sostenibile, introdotto dall’Istat in collegamento con il serio dibattito internazionale sul "superamento del Pil", quel Prodotto interno lordo che infatti, recentemente, contabilizza anche i proventi della malavita come il commercio di droga e la prostituzione.

I BILANCI DA FARE
Servono occhiali nuovi per vedere e capire la realtà. Con questi strumenti andrebbe valutato l’impatto delle ingenti cifre che lo stesso governo Renzi ha investito per offrire incentivi per tre anni alle aziende che assumono a tempo indeterminato nelle nuove forme del jobs act che semplifica e facilita il licenziamento: oltre 6 miliardi di euro nel 2015, oltre 8,3 nel 2016 e 7,8 nel 2017.  Prima o poi un bilancio sulla vita delle famiglie su questo cambiamento nei rapporti di lavoro andrà effettuato.
Restando agli importi investiti a livello macro economico per aiutare la ripresa e aumentare i consumi, c’è poi da considerare il peso degli 80 euro mensili (9,5 miliardi di euro nel 2015) concessi automaticamente ai lavoratori dipendenti e assimilati con redditi individuali compresi tra 8 mila e 26 mila euro annui, senza tener conto dei carichi familiari con evidenti effetti paradossali. In sede di conguaglio di fine anno, inoltre, ha scoperto di dover restituire l’importo non solo chi è andato oltre i 26 mila euro ma anche chi è rimasto sotto gli ottomila.
I vari bonus e incentivi sono interventi straordinari con effetti controversi dettati dalla visione immediata del decisore politico. Per poter incidere non bisogna attendere gli improbabili tempi migliori ma porre la necessità di uno sguardo di lungo termine capace di non escludere nessuno. In famiglia non avviene come nelle gare dove si assicura la parità delle condizioni di partenza (ed è già molto) ma che, prima o poi, arrivino tutti. A casa.

DA EXTRA CN 2017 

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