Un crocifisso operaio della fabbrica durante il corteo dei sindacati e lavoratori Whirlpool a Napoli, 31 ottobre 2019. |
Siamo abituati ad accettare di trattare la questione della famiglia come terreno di lobby di parte piuttosto che come condizione per affonatare i noddi sociali fondamenatli. A partire dalla diseguaglianze crescenti
Partire senza retorica dalla vita delle famiglie per
capire le diseguaglianze inaccettabili che ostacolano la nostra democrazia. Le
politiche possibili
Di Carlo Cefaloni
Quando si parla del grave declino demografico che
affligge l’Italia (agli ultimi posti nel mondo), il discorso arriva
inevitabilmente alla necessità di dare più soldi alle famiglie, tranne poi
prendere nota degli inevitabili vincoli di bilancio.
Tuttavia c’è qualcosa di rudimentale in questa prospettiva
di ingegneria sociale. Non si tratta, con tutto il rispetto, di migliorare la
quantità di cibo di un allevamento da pascolo. E neanche ci si può illudere di
invertire una rotta decennale concedendo illusoriamente qualche euro al
soggetto familiare considerato come un centro di costo autonomo, staccato dalla
società nella sua interezza.
LA
FORZA DELLA FRAGILITA’
Anche certe rivendicazioni delle ragioni delle
famiglie, avanzate come se fossero separate dal contesto generale, rischiano di
fare della famiglia una battaglia di parte, una bandiera confessionale agitata
per recuperare consensi elettorali. Lo ha messo bene in evidenza Fulvio De
Giorgi, storico della pedagogia, nel suo intervento del 2012 a Milano
all’incontro mondiale delle famiglie promossa da Benedetto XV. Non si può
affrontare la questione nella sua complessità «facendo proclami della famiglia
come rimedio di tutti i mali, come una bandiera ideologica che deve dimostrare
una realtà forte, robusta e in salute». E allora che fare? Lo abbiamo chiesto a De
Giorgi che ci ha risposto invitando a prendere coscienza che «spesso la
famiglia sperimenta la debolezza e la difficoltà ma proprio in questa fragilità
si rivela la sua forza nel non restare indifferente alla sofferenza altrui, nel
sanare le ferite rispondendo concretamente alla desertificazione delle
coscienze prodotta, come afferma papa Francesco, dalla “nuova e spietata
versione del feticismo del denaro e della dittatura di una economia senza volto”».
Intesa in
questo modo la famiglia è il luogo che sa cogliere le conseguenze profonde di
quella crescita delle diseguaglianze che segna il nostro Paese. Infatti, come
nota ancora De Giorgi, «questi ultimi decenni di neoliberalismo dominante hanno
incupito e in alcuni casi devastato i vissuti familiari, sia precarizzando il
rapporto lavoro-famiglia sia minando dall’interno, con una sottile cultura di
esasperato individualismo, la stabilità dello stesso rapporto coniugale». Per
fare un esempio potremmo dire: a che serve aumentare di qualche decina di euro
una detrazione fiscale se poi marito e moglie devono vivere rapporti di lavoro precari,
che minano il futuro dei figli, e abitare in città invivibili dominate dalla
speculazione o dall’inquinamento?
LUOGO
DI RESISTENZA DELL’UMANO
Come ha detto recentemente Giancarlo Bregantini,
vescovo in prima fila nel combattere le mafie, «abbiamo perduto la battaglia
della domenica come tempo liberato da consegnare alla relazione libera dal
profitto». Il presule, con un passato di prete operaio a Porto Marghera, ne ha
parlato all’incontro della Consulta nazionale anti usura riferendosi alla
prassi dell’apertura continuativa dei centri commerciali anche nei giorni
festivi, senza tempi di riposo condivisi nonostante le rivendicazioni sempre
più blande dei dipendenti che non possono mettere in pericolo il posto. «Fuori
da quella porta c’è la fila di persone pronte a sostituirti», è la frase che si
usa in questi e altri casi che non generano più scandalo, soprattutto tra i più
giovani. Il modello politicamente corretto che prevale è quello dell’accordo tra
adulti consenzienti, senza un minimo di analisi delle condizioni di disparità
tra chi dirige il lavoro e chi lo deve eseguire, due soggetti teoricamente
liberi.
Non è un caso che i sindacati tradizionali, in gran parte, non
insistono su questo argomento che vede invece esposte le organizzazioni
conflittuali come quelle che, nel quasi silenzio dei media, riescono a bloccare
il settore della logistica delle merci. In questo ambito si trovano spesso
lavoratori extracomunitari con legami familiari e comunitari sempre più rari
tra gli italiani. Come osservava nel 2012
una ricerca del sociologo Oscar Marchisio sui metalmeccanici a Bologna, la
dinamica del rapporto sperimentato in famiglia predispone all’impegno e a
prendersi cura dell’altro. Il contrario di quel familismo amorale ed escludente
che secondo la versione diffusa costituisce la matrice mafiosa presente della
società italiana e non solo. È consigliabile, in tal senso, la visione del film
francese dei fratelli D’Ardenne, “Due giorni e una notte”, che racconta la
parziale ma progressiva presa di consapevolezza di umana dignità in una
comunità di dipendenti di una piccola azienda davanti alla disarmante volontà
di una giovane madre di famiglia che non vuole perdere il lavoro. Un narrazione
nitida che sa offrire la radicalità, nella provvisorietà, dell’amore tra marito
e moglie. Come dice ancora De Giorgi, «le famiglie si rivelano capaci di
affrontare il nuovo totalitarismo materialistico del profitto secondo una logica
della gratuità e del legame disinteressato che la tenerezza coniugale genera e
custodisce». La sociologa Chiara Giaccardi
definisce la famiglia come « luogo di resistenza dell’umano alle diverse forme
di colonizzazione, al mito dell’efficienza (la famiglia è il luogo dove non
funziona niente), alla logica del contratto (e dei legami non scelti e
irrevocabili): è una riserva di libertà («essa costituisce l’ostacolo naturale
più forte contro l’assorbimento dell’individuo» scriveva Romano Guardini)».
FAMIGLIE
SENZA PARADISI FISCALI
La prospettiva familiare permette così di cogliere e
cerca di rimediare ai punti di frattura della convivenza sociale, a partire
dalle diseguaglianze inaccettabili che producono povertà, non solo materiale ma
anche la guerra. È significativo in tal senso quanto ha detto Gigi De Palo,
presidente del Forum delle associazioni familiari, con riferimento al grave
attentato terrorista di Nizza del 14 luglio 2016 che ha provocato decine di
vittime tra le tante persone, in particolare famiglie con bambini piccoli, che
si trovavano in piazza a festeggiare : «alzare i muri davanti a queste tragedie
non serve e non solo perché non fermano i signori del terrore ma perché non
raggiungono le radici delle divisioni. Sotto il profilo educativo le famiglie
dovrebbero lavorare nella società e insieme alla scuola per far capire che i
muri non fermano l’odio, anzi lo fanno crescere. Nelle scuole e insieme alle
scuole le nostre associazioni e famiglie proporranno e organizzeranno progetti
di dialogo interculturale e interreligioso tra le famiglie. La pace si
costruisce in casa ed a scuola».
Sembra maturo perciò il tempo per poter affrontare
le gravi ingiustizie sociali che devono subire in Italia i nuclei familiari con
figli come una delle conferme più eclatanti per dimostrare la necessità di
operare forti cambiamenti nel segno della equità. A partire da questo dato di
fatto, può ripartire un dialogo, senza veti reciproci, finalizzato a capire il
modo migliore per intervenire efficacemente in tal senso, senza spot
pubblicitari di breve effetto.
Una fotografia imbarazzante del nostro Paese è
quella che ha fatto l’Oxfam quando ha messo in evidenza il possesso del 68 per
cento della ricchezza nazionale concentrata nel 20 per cento della popolazione
benestante. Addirittura l’1 per cento più ricco degli italiani possiede il 23,4
per cento della ricchezza nazionale. Questa frazione eletta di connazionali ha
visto aumentare progressivamente il proprio reddito mentre negli ultimi 4 anni
è più che raddoppiato (da 2,1 a 4,6 milioni) il numero delle persone in
condizioni di povertà assoluta secondo l’Istat. Questo il quadro che ha visto
inevitabilmente sempre più esposte le famiglie numerose.
Secondo una rigorosa analisi comparativa del nostro
sistema fiscale con quello degli altri stati europei, effettuata per la Cgil da
Lelio Violetti, del portale “Fiscoequo”, «un lavoratore dipendente singolo con
un reddito di 40 mila euro paga di Irpef 1.428 euro in più dell’omologo
spagnolo; 5.553 euro di quello francese; 6.688 euro di quello inglese e 6.855
euro di quello americano. Mentre una famiglia italiana con un reddito
complessivo di 30 mila euro e con tre figli a carico paga di Irpef 728 euro di più
dell’omologa famiglia spagnola; 1.728 euro di quella inglese; 4.623 euro di
quella francese e 5.153 euro di quella statunitense».
NON
SOLO QUOZIENTE FAMILIARE
La regola costituzionale delle imposte è
teoricamente quella della progressività che impone di operare ritenute sempre
più elevate all’aumentare delle fasce di reddito. L’aliquota applicata sarebbe
sempre più bassa fino a scomparire se il reddito venisse tassato dopo la sua
distribuzione tra i familiari. Uno stipendio lordo di 30 mila euro diviso tra i
coniugi e tre figli, ad esempio, corrisponderebbe teoricamente a 6 mila euro.
Il funzionamento del quoziente familiare in Francia non è certo così semplice ma
è molto più complesso. Sta di fatto che secondo una simulazione operata dal
centro studi della Cgia di Mestre, in Italia una famiglia monoreddito con due
figli a carico paga cinquemila euro di imposte ( 2.842 euro se i redditi sono
due) mentre in Francia ne versa 313.
In Italia i figli entrano in gioco nel calcolo delle
imposte come una detrazione, praticamente un importo da sottrarre all’importo
lordo, che nei redditi bassi può essere più alta dell’imposta così calcolata.
Che succede in questi casi? Si matura un credito verso il fisco? Certamente no.
Le imposte si azzerano e basta. Chi resta buggerato da questo meccanismo si
dice “incapiente” e appartiene alla fascia dei più poveri nella società. Per
questa ragione pensare di agevolare il reddito delle famiglie aumentando le
detrazioni per i figli a carico si rivela una strada che finisce per favorire,
con questo sistema, coloro che possiedono i redditi più alti. Ogni sistema ha
tuttavia degli effetti non previsti inizialmente. Ad esempio tornando
all’analisi della Cgia di Mestre, anche
il quoziente familiare francese si rivela un sistema certamente più equo ma che
diventa sempre più conveniente con
l’aumentare del reddito del nucleo familiare.
Secondo alcuni, come la Cgil, il metodo del
quoziente porterebbe a scoraggiare l’occupazione per il coniuge con il reddito
più basso (di solito la donna), peggiorando il tasso di occupazione femminile
per incentivare il lavoro domestico e di cura familiare. Come ci ha detto
Cristian Perniciano, responsabile delle politiche fiscali della Cgil nazionale,
«uno dei fini più importanti di un sistema fiscale deve essere quello delle redistribuzione, ancor prima che
l'incentivo della natalità. Il fisco deve favorire, cioè, in primo luogo i
redditi inferiori che riteniamo primi bisognosi di tutela. Crediamo sia giusto,
a parità di reddito, alleggerire il carico familiare delle famiglie più
numerose, ma non che il numero dei componenti del nucleo incida sul reddito
imponibile». E come si risolve, secondo questa prospettiva, la questione degli
incapienti? Secondo Perniciano una soluzione da esplorare è quella di unificare
detrazioni e assegni familiari, ma «il
tutto deve essere valutato ponendo come elemento di maggiore importanza
il reddito».
Secondo questa visione, che non appartiene solo al
tradizionale sindacato di sinistra, il fisco deve essere separato dalle
politiche sociali. Come ? Trasformando in trasferimenti diretti in denaro le
varie agevolazioni fiscali (come le spese per istruzione, asili nido,
assistenza ai disabili, ecc.) che avvantaggiano oggi anche i redditi più
elevati.
Eppure questo confronto deve essere aggiornato alla
novità della proposta da parte del Forum delle associazioni familiari del Fattore
famiglia, un metodo di calcolo delle imposte che individua una soglia di “no
tax area” che cresce con il numero dei componenti , adotta accorgimenti tali da
non favorire i redditi più alti o scoraggiare il lavoro femminile e arriva a
configurare per gli incapienti una tassazione a credito verso il fisco. Il presupposto di questa proposta sta
nell’applicazione dell’articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a
concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il
sistema tributario è informato a criteri di progressività». Il fattore famiglia
interviene per «stabilire sopra quale limite di reddito è ammissibile
cominciare a pagare le imposte» dato che è «universalmente riconosciuto che
oggi, in Italia, le imposte sono tali da spingere parecchie famiglie con figli
sotto la soglia di povertà».
FATTORE
FAMIGLIA. NON ELEMOSINA
Su questo modello che aveva destato interesse anche
da parte dei critici del quoziente familiare si doveva parlare nella conferenza
nazionale sulla famiglia del 2013 che non si è mai tenuta come ci racconta
Riccardo Bonacina, presidente di Vita: «da oltre due anni nessuno ne parla più.
Come pare esser calato il sipario sull’Osservatorio nazionale di cui sono
formalmente il direttore, ma che ormai non viene convocato da tempo immemore». Eppure
«qui ci vorrebbe davvero un Family act, ma purtroppo, occorre partire da un
dato di fatto: in Italia non esiste una legge sulla famiglia. Esistono numerosi
riferimenti alla famiglia in norme che riguardano altro, ma manca un quadro
complessivo. E questo fa di noi un’eccezione nel panorama europeo. È la
certificazione del mancato riconoscimento della centralità della famiglia,
malgrado sia proprio essa il parametro fondamentale di molte decisioni
socio-economiche del nostro Governo».
In effetti il “fattore famiglia” non è una richiesta
di elemosina ma ha l’ambizione di proporre una linea complessiva non solo di
politica tributaria perché, a fronte di un
minore introito fiscale di 14 miliardi di euro prevede una crescita dei
consumi per 11,7 miliardi, il recupero
Iva per 2 miliardi e altri 3,2 miliardi
da altre imposte con la conseguenza, relativa all’economia reale, di creare 200
mila posti di lavoro e far superare la soglia di povertà ad un milione di
famiglie.
Il progredire delle diseguaglianze predispone a far
entrare in considerazione per un confronto pubblico anche proposte come il
“reddito minimo universale” o “reddito di base” che sono state considerate
finora aliene da ogni considerazione familiare perché basate sul diritto di
ogni persona singola a percepire un reddito di base cumulabile con ogni altra
forma di reddito. Sembra una formula bizzarra
e invece se ne discute seriamente perché, a conti fatti, eliminando ogni altra
forma di sostegno e i costi burocratici dei controlli amministrativi le cifre
sono teoricamente meno irrealizzabili. Pensiamo a cosa significherebbe
assicurare un importo fisso ad ogni componente della famiglia, senza condizione
alcuna, dalla verifica dell’isee all’accettazione di qualsiasi tipo di
occupazione.
Qualsiasi tipo di intervento ipotizzato resta
tuttavia una ipotesi di scuola davanti alla carenza di risorse pubbliche
imposte da misure di austerità sempre più contestate nella loro coerenza e
efficacia da molti economisti. Nel bilancio pubblico, inoltre, mancano le
entrate di chi evade il fisco ed è a catalogato, per beffa, nella fascia più
bassa dei redditi. Quindi, esclusi i provvedimenti di pura emergenza, un
discorso realista sulle misure necessarie a contrastare diseguaglianze e
povertà nelle famiglie, e quindi nella società, deve partire da alcune domande:
Si possono non solo contestare ma cambiare le regole di austerità depressiva
che ostacolano la crescita economica? Esistono ricette per colpire le rendite
di posizione, l’evasione ed elusione fiscale di privati e società che si
rifugiano nei paradisi fiscali? Si è in grado di fare un’analisi delle entrate
e uscite dei bilanci statali per capire come dirottare certe spese a favore dei
redditi familiari secondo criteri di giustizia sociale?
BENE
COMUNE E INTERESSI PRIVATI
Il vero problema sta nel fatto che si è rinunciato
da tempo a porsi questo tipo di domande per rinchiudersi in contese da
condominio, mentre l’Istat continua registrare un gelo demografico paragonabile
solo a quello delle guerre mondiali e la crescita degli indici di povertà. Nel
2015 la povertà assoluta ha raggiunto 4 milioni e 598 mila persone, il numero
più alto dal 2005. Secondo la definizione dell’Istat, una famiglia è
considerata assolutamente povera dall’Istat se sostiene una spesa mensile per
consumi pari o inferiore ad una soglia di denaro corrispondente ad un paniere
di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia. I numeri
parlano di oltre un milione di minori in condizioni di povertà assoluta. Un vero smacco per l’identità di un
Paese che perde ancora tempo a parlare del mercato milionario dei calciatori.
Nel luglio 2016, in coincidenza significativa con il
comunicato dei dati Istat sulla povertà, il governo Renzi ha presentato,
tramite il ministro del lavoro Poletti, lo strumento del Sia (Sostegno per
l'Inclusione Attiva), in vigore da settembre: 80 euro mensili a persona, per un
massimo di 400 euro nel caso di nuclei familiari con 5 o più componenti. Per
ottenere questo importo occorre avere un Isee bassissimo (3 mila euro) e la
presenza in famiglia di un minore o di un figlio disabile o di una donna in
attesa. La dotazione complessiva è di 750 milioni di euro e dovrebbe coprire un
numero di famiglie che si aggira tra 180
e 220 mila unità corrispondenti a massimo un milione di beneficiari, per metà
minori. Nel 2017 la cifra stanziata dovrebbe raddoppiare andando a coprire il
milione di minori in povertà. Si tratta di un tipo di misura già introdotta dal
ministro del lavoro Giovannini con il governo Letta ma stavolta viene
presentata come la premessa di un piano nazionale di lotta contro la povertà
accompagnata dall’obbligo di seguire programmi di reinserimento lavorativo.
Davanti a certe scelte governative, i comunicati positivi,
come quello della rete dell’Alleanza contro la povertà, sembrano molto
pragmatici perché salutano una presa in carico del problema sperando in una
svolta radicale dopo anni dove si è giunti anche ad azzerare il fondo per le
politiche sociali. Pochi si oppongono alla necessità di dare sostegno a chi sta
in condizioni estreme. Resta il fatto che si tratta, in sostanza, di una social
card che cerca di alleviare parzialmente ( sono 4,6 milioni le persone in povertà assoluta) ad
un emergenza, lasciando in sospeso la questione delle cause che ghermiscono
sempre più da vicino coloro che sono nella fascia della povertà relativa,
incapaci far fronte ad una spesa improvvisa perché già al di sotto del livello di consumo medio
pro-capite.
Gli 80 euro di Poletti si fermano al componente
numero 5 della famiglia. E se c’è un quarto figlio? Perché deve essere privato di questo aiuto
estremo? Eppure nota Alfredo Caltabiano dell’ Associazione delle famiglie
numerose, si tratterebbe di casi rari in un Paese a crescita sottozero, tali
cioè da non incidere sul plafond stanziato dal governo. Persiste, anche nei
dettagli, uno sfavore incomprensibile che va contro ogni logica di equità se
non accettando la prospettiva di considerare i figli come beni privati di lusso
che possono portare alla miseria. L’accanimento si vede poi in tanti altri
aspetti che pesano nella vita ordinaria delle persone come il conteggio
dell’Isee che penalizza le famiglie con figli, nel mancato aggiornamento della
soglia del reddito lordo (2.850 euro) secondo cui una persona è a carico
fiscalmente, nei costi insostenibili degli asili nido, tra l’altro
insufficienti di numero. Ma è proprio il binomio che associa figli a
povertà che va contestato secondo Caltabiano partire dalla Costituzione. Non si
possono considerare i cittadini che appartengono ad una famiglia solo come
destinatari di assistenza sociale, mentre sono, invece, titolari di diritti nonché generatori di una ricchezza collettiva che sanno
cogliere solo indicatori come il Bes, il benessere equo e sostenibile,
introdotto dall’Istat in collegamento con il serio dibattito internazionale sul
"superamento del Pil", quel Prodotto interno lordo che infatti,
recentemente, contabilizza anche i proventi della malavita come il commercio di
droga e la prostituzione.
I
BILANCI DA FARE
Servono occhiali nuovi per vedere e capire la
realtà. Con questi strumenti andrebbe valutato l’impatto delle ingenti cifre che
lo stesso governo Renzi ha investito per offrire incentivi per tre anni alle
aziende che assumono a tempo indeterminato nelle nuove forme del jobs act che semplifica e facilita il
licenziamento: oltre 6 miliardi di euro nel 2015, oltre 8,3 nel 2016 e 7,8 nel
2017. Prima o poi un bilancio sulla vita
delle famiglie su questo cambiamento nei rapporti di lavoro andrà effettuato.
Restando agli importi investiti a livello macro
economico per aiutare la ripresa e aumentare i consumi, c’è poi da considerare
il peso degli 80 euro mensili (9,5 miliardi di euro nel 2015) concessi automaticamente
ai lavoratori dipendenti e assimilati con redditi individuali compresi tra 8
mila e 26 mila euro annui, senza tener conto dei carichi familiari con evidenti
effetti paradossali. In sede di conguaglio di fine anno, inoltre, ha scoperto
di dover restituire l’importo non solo chi è andato oltre i 26 mila euro ma
anche chi è rimasto sotto gli ottomila.
I vari bonus e incentivi sono interventi
straordinari con effetti controversi dettati dalla visione immediata del
decisore politico. Per poter incidere non bisogna attendere gli improbabili
tempi migliori ma porre la necessità di uno sguardo di lungo termine capace di
non escludere nessuno. In famiglia non avviene come nelle gare dove si assicura
la parità delle condizioni di partenza (ed è già molto) ma che, prima o poi,
arrivino tutti. A casa.
DA EXTRA CN 2017
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