Nella notte del 6 novembre, i carabinieri hanno
proceduto all’arresto di 7 persone accusate di sfruttare pesantemente alcuni
braccianti agricoli provenienti dai Paesi dell’Europa dell’Est . Tre euro di
paga oraria per una giornata di 12 ore, senza pause. Una lavoratrice, secondo
le indagini in corso, ha perso il figlio che portava in grembo a causa dei
ritmi impossibili di lavoro.
Nella dolce provincia di Viterbo, a Vignanello,
luogo noto per la coltivazione delle nocciole, la paga imposta era di un euro e
mezzo all’ora per immigrati senza permesso di soggiorno, alloggiati in pessime
condizioni. In Calabria, invece, è cominciata la raccolta degli agrumi e nella
Piana di Gioia Tauro è stato trovato senza vita un ragazzo di 22 anni, Ousman Keita, con le forbici, utilizzate per
tagliare i rami, conficcate nel collo. Il caso è all’attenzione della polizia.
L’oppressione che si esercita in Italia, in diverso
modo in ogni ambiente, contro i
lavoratori più fragili e indifesi della filiera produttiva, rappresenta
il volto violento di una società disumana, che si nutre di indifferenza prima
ancora della ferocia.
Un fenomeno che non si può spiegare o giustificare
facilmente se non attingendo alle domande più penetranti sulle tragedie del nostro
tempo. Ciò non ci impedisce di cercare di capire come contrastare, in tutti i modi,
uno scempio che si consuma, in particolare, con la pratica del caporalato sulla
carne viva di circa 400 mila persone secondo la stima dell’Osservatorio Placido
Rizzoto, promosso dalla Federazione dei lavoratori agricoli della Cgil.
È senza dubbio importante il lavoro di inchiesta e
repressione da parte delle forze dell’ordine e dell’ispettorato del lavoro, ma
bisogna registrare, proprio in questi giorni, lo stato di agitazione sindacale
degli ispettori che non hanno personale e risorse per operare efficacemente.
Si può agire anche cercare di agire alla radice
delle migrazioni forzate che finiscono per fornire forza lavoro a basso prezzo
alla parte oscura della nostra agricoltura. Ma si tratta di un percorso assai
difficile e complesso. Come fa notare Jean Renè Bilongo, dell’Osservatorio
Rizzotto, ad esempio, il giovane Ousman Keita, è arrivato in Italia, partendo
dalla «Costa d’Avorio, per decenni fiore all’occhiello delle promesse di
sviluppo dell’Africa occidentale.
Un Paese che aveva scommesso sulla
cacao-coltura di cui è tuttora leader planetario indiscusso» anche se poi si
ignora il suo stato di conflitto politico militare esistente, determinato da
soggetti risalenti al passato coloniale, che ha poi prodotto «quelle deprimenti
conseguenze sociali che sono una delle principali cause del massiccio esodo
giovanile».
Una delle leve possibili per cambiare il sistema che
produce sfruttamento resta quello di agire sulla formazione del prezzo giusto
lungo tutta la filiera che parte dalla coltivazione sul campo all’acquisto sui
banchi del mercato.
Non ci troviamo in un economia pianificata che pretende di
imporre prezzi ufficiali per poi fomentare un parallelo mercato nero. Parliamo,
invece, di volumi giganteschi di prodotti, ad esempio il pomodoro, destinati non solo al consumo immediato ma
anche all’industria della trasformazione. Alcuni beni possono rientrare nel
circuito del Km zero, riuscendo a saltare ogni intermediazione grazie alla vicinanza
tra produttore e consumatore. Ma gran parte di ciò che entra nel mercato
ortofrutticolo è soggetto al meccanismo della globalizzazione delle merci, dove
entra in campo la forza dei dazi, sociali e ambientali, e quella dei trattati
internazionali che rimuovo tali vincoli protettivi.
Senza una regola condivisa,
almeno a livello comunitario, è difficile reggere la concorrenza con prodotti
coltivati a costo notevolmente inferiore per mancanza di regole stringenti in
campo lavorativo e fitosanitario. Accade anche che tali precauzioni vengano
aggirate anche da produttori italiani senza scrupoli come ha dimostrato
l’ultima inchiesta di Marco Omizzolo e Valerio Mastrandrea sull’uso diffuso
nell’agro pontino di fitofarmaci vietati dalla legge italiana perché dannosi
per i consumatori e i lavoratori
coinvolti nella filiera agroalimentare.
La questione aperta resta la possibilità di imporre
per legge un prezzo determinato dall’osservanza di requisiti, non formali ma
verificabili, di rispetto dei lavoratori e dell’ambiente. Su questo punto si
registra la resistenza del mondo della grande distribuzione organizzata,
popolata da gruppi in forte competizione tra loro proprio nella capacità di
poter offrire dei prodotti al prezzo più conveniente per il consumatore. A tal
fine possono incidere molti fattori organizzativi, le possibili economie di
scala che fanno conto dei risparmi possibili lungo tutta la filiera fino a chi
lavora nelle serre o tra i campi. Meccanismi come l’asta al doppio ribasso, che
inducono i produttori a vendere sottocosto, sono stati in parte banditi grazie
alla campagna di associazioni molto combattive come “Terra!”.
Ma resta il
problema che l’azione possibile solo con la spinta del consumo virtuoso di
alcuni acquirenti socialmente responsabili è destinata a raggiungere certi
obiettivi nel lungo termine, creando nel frattempo nicchie di mercato
accessibile a certi sociali più benestanti. Chi non può pagare l’affitto di
casa, solidarizza idealmente con il bracciante oppresso dai caporali, ma è costretto
a fare la spesa per nutrire la famiglia dove è più conveniente. Ci troviamo,
così, davanti ad una catena di creazione di disvalore e di ingiustizia che pone
in contrasto poverissimi contro i nuovi impoveriti. Spezzare queste catene è
uno degli obiettivi politici più significativi che può e deve porsi la società
civile per cambiare lo stato delle cose e non partecipare al sistema che
astrattamente contesta.
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