Era il 2013 e
si celebravano i 300 anni di Antonio Genovesi, il quasi sconosciuto economista
campano preso come esempio dell’economia civile che tanti citano anche se ne
ignorano il significato. Suona bene e può dare l’illusione di offrire una
alternativa. Sento ora riparlare di formule antiche come «il capitalismo dal
volto umano», che è un concetto insostenibile. Così, infatti, mi diceva l’economista
Stefano Zamagni intervistato per l’occasione dell’anniversario di Genovesi, strettamente
collegato alla vocazione mediterranea della città di Napoli
Chiedevo: come
si può ripartire da Napoli che sembra, oggi, il concentrato della crisi senza via
d’uscita?
«Napoli, all’inizio del 1700, era la città più
avanzata e progredita
del mondo allora conosciuto; ma nel 1754 Genovesi,
primo titolare di una cattedra di economia nella storia, intitolava così
la sua prolusione all’anno accademico: “Perché Napoli
sta decadendo?”. Precise motivazioni
politiche avevano favorito il sopravvento dell’approccio individualista in base al quale ognuno deve essere responsabile del proprio destino. Rimosso dal discorso pubblico, e in particolare da quello economico, il principio di fraternità,
che è di matrice cristiana (altri possono
avere solidarietà o fratellanza), l’altro con cui mi rapporto diventa,
se non un nemico, un avversario da
battere, qualcuno al quale devo portare via parte della sua ricchezza per aumentare la mia, in un gioco economico a somma zero».
E cosa proponeva
invece Genovesi?
«Diceva: “Se vogliamo ridare a
Napoli il passato glorioso e nuovo
sviluppo dobbiamo rifocalizzare la
fi ducia”. Chiarendo che fi ducia, dal
latino fi des, vuol dire “corda” che
unisce te a me, non un vago sentimentalismo.
Con la fi ducia si può
stringere un contratto, che è lo strumento
principale di un’economia di
mercato»
Nel frattempo cosa è accaduto?
«Agli
inizi del 1700 Londra aveva
5 mila
abitanti, praticamente un
borgo,
mentre Napoli era una città
fi
orente. Ma in Inghilterra è poi scoppiata
la
rivoluzione industriale e nel
1776
Adam Smith pubblicava la sua
opera
fondamentale (La ricchezza
delle nazioni), che metteva la pietra
tombale
sul pensiero dell’economia
civile
di Genovesi. Un Paese egemone
militarmente
ed economicamente
fi
nisce per esportare non solo merci
ma
anche cultura. Da un ventennio
assistiamo,
tuttavia, ad una notevole
ripresa
di interesse per l’economia
civile,
che è come un fi ume carsico:
scorre
in superfi cie per inabissarsi
nelle
viscere della terra per poi riemergere
nuovamente.
La crisi fi nanziaria
epocale
ha prodotto distruzione
di
speranza, generando problemi che
non
possono essere risolti se non rimettendo
al
centro del discorso economico
la
fraternità».
In una struttura che resta
capitalista,
la fraternità non rischia di
essere
una semplice verniciatura?
«Non è
affatto vero. Il capitalismo
è un
sistema economico che
nasce
tre secoli dopo il sorgere, con
l’umanesimo
civile, dell’economia
di
mercato. Nella storia abbiamo
conosciuto
diversi modelli di economia
di
mercato, e quello capitalista
è
stato, senza dubbio, dominante fi -
no ad
oggi. Adesso, sono molti gli
stessi
studiosi statunitensi che ne
preconizzano
la fi ne. La realtà sta
evolvendo.
Negli Usa, Michel Porter,
il
numero uno dell’Harvard
Business
School, in un articolo del
2011
che ha fatto il giro del mondo,
ha
affermato che le imprese non devono
massimizzare
il profitto, ma il
valore
condiviso. Recentemente è
stato
pubblicato un testo dal titolo
“Capitalismo
condiviso”. Ma anche
i
bambini sanno che la logica capitalista
è mors tua vita mea. Se uso il
verbo “condividere”
nego la natura
stessa
del capitalismo»
Ma il cambiamento è lento ad
incidere,
mentre Paesi come la Grecia
stanno bruciando. Che fare?
«Ciò
che avviene è l’effetto di
errori
politici gravissimi. Lo stesso
Olivier
Blanchard, capo economista
del
Fmi, con onestà intellettuale ha
dichiarato
di avere sbagliato i calcoli
del
moltiplicatore fi scale che hanno
indotto
l’Europa verso l’austerità. Il
medico
ha sbagliato la ricetta e il paziente
sta
peggio. È la dimostrazione
che la
teoria economica ereditata dal
recente
passato è carente e aporetica.
Bisogna
rimboccarsi le maniche, ma
cambiando
l’assunto antropologico
di
base, quello che vede l’uomo solo
come
vizio, e non anche come portatore
di
virtù
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