lunedì 9 dicembre 2019

Capitalismo dal volto umano?

Era il 2013 e si celebravano i 300 anni di Antonio Genovesi, il quasi sconosciuto economista campano preso come esempio dell’economia civile che tanti citano anche se ne ignorano il significato. Suona bene e può dare l’illusione di offrire una alternativa. Sento ora riparlare di formule antiche come «il capitalismo dal volto umano», che è un concetto insostenibile. Così, infatti, mi diceva l’economista Stefano Zamagni intervistato per l’occasione dell’anniversario di Genovesi, strettamente collegato alla vocazione mediterranea della città di Napoli 




Chiedevo: come si può ripartire da Napoli che sembra, oggi, il concentrato della crisi senza via d’uscita?

«Napoli, all’inizio del 1700, era la città più avanzata e progredita
del mondo allora conosciuto; ma nel 1754 Genovesi, primo titolare di una cattedra di economia nella storia, intitolava così la sua prolusione all’anno accademico: “Perché Napoli
sta decadendo?”. Precise motivazioni
politiche avevano favorito il sopravvento dell’approccio individualista in base al quale ognuno deve essere responsabile del proprio destino. Rimosso dal discorso pubblico, e in particolare da quello economico, il principio di fraternità,
che è di matrice cristiana (altri possono
avere solidarietà o fratellanza), l’altro con cui mi rapporto diventa,
se non un nemico, un avversario da
battere, qualcuno al quale devo portare via parte della sua ricchezza per aumentare la mia, in un gioco economico a somma zero».

E cosa proponeva invece Genovesi?

«Diceva: “Se vogliamo ridare a
Napoli il passato glorioso e nuovo
sviluppo dobbiamo rifocalizzare la
fi ducia”. Chiarendo che fi ducia, dal
latino fi des, vuol dire “corda” che
unisce te a me, non un vago sentimentalismo.
Con la fi ducia si può
stringere un contratto, che è lo strumento
principale di un’economia di
mercato»

Nel frattempo cosa è accaduto?

«Agli inizi del 1700 Londra aveva
5 mila abitanti, praticamente un
borgo, mentre Napoli era una città
fi orente. Ma in Inghilterra è poi scoppiata
la rivoluzione industriale e nel
1776 Adam Smith pubblicava la sua
opera fondamentale (La ricchezza
delle nazioni), che metteva la pietra
tombale sul pensiero dell’economia
civile di Genovesi. Un Paese egemone
militarmente ed economicamente
fi nisce per esportare non solo merci
ma anche cultura. Da un ventennio
assistiamo, tuttavia, ad una notevole
ripresa di interesse per l’economia
civile, che è come un fi ume carsico:
scorre in superfi cie per inabissarsi
nelle viscere della terra per poi riemergere
nuovamente. La crisi fi nanziaria
epocale ha prodotto distruzione
di speranza, generando problemi che
non possono essere risolti se non rimettendo
al centro del discorso economico
la fraternità».

In una struttura che resta capitalista,
la fraternità non rischia di essere
una semplice verniciatura?

«Non è affatto vero. Il capitalismo
è un sistema economico che
nasce tre secoli dopo il sorgere, con
l’umanesimo civile, dell’economia
di mercato. Nella storia abbiamo
conosciuto diversi modelli di economia
di mercato, e quello capitalista
è stato, senza dubbio, dominante fi -
no ad oggi. Adesso, sono molti gli
stessi studiosi statunitensi che ne
preconizzano la fi ne. La realtà sta
evolvendo. Negli Usa, Michel Porter,
il numero uno dell’Harvard
Business School, in un articolo del
2011 che ha fatto il giro del mondo,
ha affermato che le imprese non devono
massimizzare il profitto, ma il
valore condiviso. Recentemente è
stato pubblicato un testo dal titolo
“Capitalismo condiviso”. Ma anche
i bambini sanno che la logica capitalista
è mors tua vita mea. Se uso il
verbo “condividere” nego la natura
stessa del capitalismo»

Ma il cambiamento è lento ad incidere,
mentre Paesi come la Grecia
stanno bruciando. Che fare?

«Ciò che avviene è l’effetto di
errori politici gravissimi. Lo stesso
Olivier Blanchard, capo economista
del Fmi, con onestà intellettuale ha
dichiarato di avere sbagliato i calcoli
del moltiplicatore fi scale che hanno
indotto l’Europa verso l’austerità. Il
medico ha sbagliato la ricetta e il paziente
sta peggio. È la dimostrazione
che la teoria economica ereditata dal
recente passato è carente e aporetica.
Bisogna rimboccarsi le maniche, ma
cambiando l’assunto antropologico
di base, quello che vede l’uomo solo
come vizio, e non anche come portatore
di virtù

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