Ho letto e trovato di grande attualità questo testo di Ernesto Balducci estratto dall'introduzione di un libro di Mimmo Franzinelli del 1991 "Il riarmo dello spirito", difficile da recuperare. Sono dubbioso sulla certezza che aveva Balducci quando diceva «Questa follia non potrà ripetersi».
«A quanto mi risulta, nella sterminata storiografia sull'ultima guerra, al di là di pregevoli monografie, manca una ricerca specifica e globale sul ruolo che vi ebbe la Chiesa cattolica nel suo apparato pastorale.
Eppure, se si tien conto dell'incidenza che, con il prestigio della sua immagine e con il suo radicamento nella società, una diligente ricostruzione dei comportamenti istituzionali e personali del clero in seno all'esercito è indispensabile per comprendere la vastità dello smarrimento culturale e morale di cui il fascismo fu solo la forma politica.
Ho gli anni giusti per verificare nelle pieghe
della mia autobiografia i riflessi di quella tragedia morale, a cominciare dal
crudo segno del complesso di colpa: lo stesso Concordato che riconosceva ai
cappellani militari un ruolo equiparato a quello degli ufficiali, consentì a
molti, come a me, di restare fuori dalla bufera per il privilegio
dell'esenzione dal servizio militare. E così il mio antifascismo, retaggio del
mondo operaio da cui vengo, riuscì a evitare la prova delle scelte di coscienza
nell'ovattato rifugio di un seminario romano, in cui peraltro dominava
complessivamente un allineamento acritico alla causa fascista. Ho sempre
portato in me la vergogna di un crumiro della storia: sotto le volte di una
istituzione in cui non si udivano più gli echi della profezia, mi sono limitato
a osservare la tragedia del mondo dagli spiragli di una finestra socchiusa.
Forse è anche per questo che questa
documentatissima storia del clero militare durante la guerra mi ha coinvolto
nel profondo, mettendomi sotto gli occhi, al di là della minuziosa
ricostruzione o forse proprio in forza di essa (Franzinelli non parla, fa
parlare gli archivi), il collasso morale non solo della
società ma della Chiesa, condannata a scontare fino in fondo le conseguenze
morali del suo sogno teocratico, incarnato, almeno in primo piano, dal
protagonista di questa follia collettiva: il vescovo castrense Angelo
Bartolomasi.
È vero – e Franzinelli lo documenta in modo
esemplare – che la tipologia dei cappellani fu abbastanza variegata; vi
rientrano anche uomini come padre Bevilacqua o come don Gnocchi che sovrastano
di gran lunga la piatta volgarità spirituale della categoria e anzi anticipano,
specie il primo, i tempi nuovi. E tuttavia è raro rintracciare tra questi
ministri, che pure traevano dal Vangelo il loro titolo di presenza, una qualche deplorazione della guerra come tale, una
qualche premura indifferenziata per i diritti dell'uomo, a cominciare dai
diritti di coscienza. Anche quelli che dopo l'8 settembre imboccarono i
sentieri della dissidenza dal fascismo dovettero sperimentare l'isolamento e
l'incomprensione.
Lo confesso: andando avanti nella lettura di
queste pagine, cresceva in me, accanto allo sgomento, un
senso di pietà per questi uomini di Dio, colmi di zelo e di buona volontà ma
senza nessun discernimento, pronti a trascinare i loro altarini di campo
in campo, a diluire la parola evangelica in un beveraggio insulso o cupamente
pagano, lieti degli effetti che spesso ottenevano in una truppa reclutata per
lo più nel ceto contadino e perciò abituata a mettere insieme, senza scrupoli,
l'amore alla mamma e la devozione alla Madonna, la frequentazione delle case di
tolleranza e l'amuleto sacro contro le pallottole, la bestemmia e la preghiera.
La condanna evangelica non li sfiora
mai, questi pastori. La guerra sembra per loro un evento
necessario che non provoca come tale reazioni morali, ma viene vissuta o con il
consenso ideologico o con una generica disposizione al sacrificio della vita.
Come scrisse il giornale cattolico “L'Italia”, essi «alzano
il crocifisso con la decisione e la fermezza con cui il nostro soldato alza la
propria arma».
Pagine inesorabili, queste, proprio perché prive
di pregiudizio ideologico, costruite minuziosamente con citazioni d'archivio.
Da qui l'effetto angosciante della loro potenza evocativa. Ciò che esse evocano
vorrei chiamarlo ateismo cattolico, e cioè una
forma religiosa in cui non respira né la coscienza libera né la libera parola
di Dio.
Tutto è divorato da una retorica vuota di Vangelo e di ragione. Sono i
maestri non dei martiri che muoiono sapendo perché muoiono, ma dei servi che muoiono senza sapere perché, secondo una
nobile lettera scritta da don Primo Mazzolari, uno dei rari preti che presero
posizione contro la guerra.
Se toccasse a me, farei leggere il libro
di Franzinelli in tutti i seminari, perché chi oggi ha
deciso di farsi prete tenga presenti gli esempi negativi della sua categoria e
si renda conto di quale sia la ragione di fondo di tanti smarrimenti: è la
sfiducia nella coscienza dell'uomo, è l'attaccamento all'istanza autoritaria, è
l'identificazione tra regno di Dio ed egemonia della Chiesa. È, in radice, quel nichilismo antropologico che un
tempo trovava le sue ebbrezze nell'accettazione di una religione sacrificale al
cui centro c'è un Cuore coronato di spine che invita gli uomini al sacrificio
della vita.
Oserei dire che questa Chiesa non c'è più. Nel
caso di una guerra – e lo abbiamo visto nei tristi giorni del Golfo – non ci
sarà più un Pontefice taciturno né un cappellano che, armato di crocifisso,
esorta all'amore per la patria come una sola cosa con l'amore di Dio.
Questa follia non potrà ripetersi.
E tuttavia il male antico ha ancora
propaggini nelle coscienze e niente vale a liberarle quanto
una documentata ricognizione dei modi con cui quel male si propaga e si
maschera. Franzinelli ha reso un grande servizio a questa trasformazione della
cultura e insieme ha reso onore a tutti coloro che in nome della coscienza si sono
opposti al fascismo e oggi si oppongono a ogni tentativo di riproporre la
guerra come strumento di giustizia».
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