1917 Cantieri Ansaldo di Genova durante la Grande Guerra |
Questa intervista è stata pubblcata in due puntate su cittanuova.it
Una traccia per capire l'impronta devastante del complesso militar industriale sulla nostra economia, con una chiave di lettura da portare avanti
Alle
origini della crisi dell’industria italiana
Intervista a Stefano Zara, già presidente di
Assindustria Genova, sulle strategie di politica industriale operante nel
nostro Paese a partire dalle scelte effettuate su Finmeccanica, ora Leonardo
A partire dalla vicenda dell’Ilva, strettamente
collegata al settore manifatturiero, si parla, oggi, per l’Italia di “perdita
di sovranità industriale”. Un fatto che non nasce certo in questi giorni. Già il
sociologo Luciano Gallino analizzò, a partire da alcuni casi concreti, nel
2003, la “Scomparsa dell’Italia industriale”. Si tratta di scelte determinanti
il nostro futuro e che merita approfondire non solo per una ricerca storica ma
per capire la possibile inversione di tendenza. Per questo motivo è importante
ascoltare la testimonianza di Stefano
Zara, presidente Confindustria
Genova dal 1996 al 2000, ai tempi, cioè, dei cosiddetti anni di piombo ha
ricoperto il ruolo di direttore del personale all’Ansaldo, gruppo Iri, di
Genova, proprio negli anni dell’assassinio del sindacalista Guido Rossa da
parte delle Br.
Ha
sempre espresso, con autorevolezza, la contrarietà verso le scelte operate dai
vertici di Finmeccanica, ora Leonardo, di dismettere aziende
strategiche in campo civile a favore del potenziamento del settore militare.
Una linea di politica industriale, condivisa da governi di diverso colore, che
ha finito per impoverire il patrimonio di competenze concentrate in una delle
città che, da decenni, sconta più duramente le conseguenze di quella che viene
definita come la più grave crisi economica del dopoguerra.
Che strategie ha seguito, a suo giudizio, Finmeccanica nel contesto genovese?
La scelta di politica industriale di concentrare la
produzione di Finmeccanica ora Leonardo parte da lontano, dagli anni 90, e ha
avuto come fonte ispiratrice la grande società statunitense di consulenza Mc Kinsey,
sul presupposto di privilegiare il core
business, piuttosto della diversificazione dell’attività produttiva. Una
direttiva seguita ininterrottamente negli anni nonostante i cambiamenti dei
vertici dell’azienda fino all’impennata registrata con la gestione di Mauro Moretti,
ex Ad di Ferrovie dello Stato, che ha operato in questo senso, dal 2014 al
2017, con una determinazione degna di miglior causa. Proprio in un momento in
cui il comparto civile esprimeva realtà produttive di tutto rilievo come
Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, aziende sane che producevano fior di utili. Società,
quindi, vendute per finanziare il settore militare. D’altra parte Finmeccanica aveva
già scelto, nel 2008, di acquisire un’importante società statunitense del
comparto difesa. La DRS Technologies. Ha
prevalso quindi la tesi di smobilitare gli investimenti nel civile per
concentrarsi in quello militare, con conseguenze pesanti su Genova, che aveva
una produzione concentrata proprio nel civile. In due settori, inoltre, come energia
e trasporti, che sono strategici per il Paese.
Su questi temi ho avuto modo di interloquire in più
occasioni con i vertici di Finmeccanica
Pier Francesco Guargaglini (responsabile settore Difesa di Finmeccanica
96-99 e poi amministratore delegato dal 2002 al 2011) e Giorgio Zappa
(direttore generale al 2004 al 2011) che hanno sempre fatto presente che gli
indirizzi strategici sulle delicate materie di politica industriale da me chiamate
in causa erano di competenza delle istituzioni governative ed era in quelle
sedi che loro esprimevano i loro orientamenti. Così, ho riproposto ai decisori politici tutte le critiche, verso
questo orientamento strategico, quando per 18 mesi, a partire dall’ottobre 2004
all’aprile 2006, sono stato eletto deputato, esponendo il solo simbolo dell’Ulivo,
con un voto suppletivo in un collegio di Genova, tradizionalmente di
centrodestra. La mia azione era strettamente legata agli interessi della città,
ad uno sviluppo del territorio compromesso dal piano di dismissione avviato da
Finmeccanica. E tuttavia questo ragionamento era collegato al fatto evidente
che una concentrazione nel settore difesa avrebbe comportato, nelle migliore
delle ipotesi, la riduzione delle imprese ad un’attività di officina del
ministero della Difesa e, comunque, una perdita di autonomia verso i
trafficanti di armi e le lobby del settore.
Alcuni
analisti fanno notare la nostra riduzione a subfornitori della committenza delle
grandi società statunitensi che decidono le vere strategie industriali…
Non c’è dubbio. Ansaldo Energia è stata, di fatto,
acquisita dai cinesi dai quali è quasi del tutto dipendente per ragioni di
mercato anche se Cassa Depositi e Prestiti detiene una quota di maggioranza.
Ansaldo Sts è stata ceduta ai giapponesi della Hitachi. I miei interventi sono
stati incentrati sulle linee di politica industriale, condivisi dalla collega
deputata Roberta Pinotti, al tempo convinta sostenitrice del settore civile.
L’esponente
dem è poi stata nominata Ministro della Difesa, cambiando linea su questi temi.
Come è stato, invece, il suo itinerario politico?
Nel passaggio dal sistema dei collegi elettorali a
quello del cosiddetto Porcellum a liste bloccate, mi hanno proposto, nel 2006,
una collocazione tale che non permetteva l’elezione, con la promessa di essere
ricollocato in qualche ruolo manageriale. Offerta che ovviamente non ho
accettato.
Cosa
ha significato la cessione di Ansaldo Sts e Ansaldo energia?
La cessione ha comportato notevoli entrate per
Finmeccanica. Ansaldo Energia produceva utili preziosi, anche perché veniva da
un processo di risanamento. Per quanto riguarda Ansaldo Sts, abbiamo perso un
patrimonio di conoscenze che poneva questa società come leader a livello
mondiale con particolare attenzione ai sistemi di segnalamento, una materia di
avanguardia tecnologica dei sistemi di sicurezza connessi all’automazione. Prima
ancora delle commesse, le società subentranti hanno potuto acquisire una
patrimonio di conoscenze specialistiche.
Da
questa operazione ne è conseguita qualche delocalizzazione all’ estero?
No, questo finora non è avvenuto per Ansaldo Sts. E
si sa che non è nello stile di Hitachi. Relativamente ad Ansaldo Energia, la
presenza di Cassa Depositi e Prestiti rappresenta una garanzia.
A
parte le entrate dalla cessione, quale strategia si può intravedere in queste
scelte?
Non riesco davvero a vederle. Ad essere sincero la
carenza, meglio l’assenza, di politica di industriale ha la sua origine nella
decadenza progressiva del nostro Paese dopo l’esaurirsi, negli anni ’70, della
spinta della ricostruzione post bellica. Posso testimoniare di aver visto in
quegli anni, lavorando nel settore delle partecipazioni statali, la
consapevolezza e l’orgoglio dei dirigenti nel poter partecipare alla crescita
dell’Italia in settori di avanguardia in termini industriali. Eppure,
partecipando, come parlamentare, alla commissione dello sviluppo economico
guidata da Bruno Tabacci, allora nel campo di centro destra, ho potuto leggere
analisi di grande intelligenza e spessore, senza effetto alcuno nella realtà. E
non c’è stato, sotto questo aspetto, alcun cambiamento con il variare del
colore dei governi.
Eppure
deve ammettere, pur da convinto ulivista, che lo smantellamento del sistema
delle partecipazioni statali è stato condotto da Romano Prodi, anche in settori
determinati a livello infrastrutturale, ad esempio Telecom. È stata una scelta obbligata da determinate
lobby?
Non riesco a credere ai complotti. C’è da dire che a
Genova non hanno mai perdonato a Prodi la privatizzazione dei cantieri navali. Lui parlava di pacchetti compensativi di altre
attività che non sono mai decollate. Ma se vogliamo davvero ricercare l’origine
dell’idea dello smantellamento del sistema delle partecipazioni statali
nell’industria bisogna risalire ad Beniamino Andreatta (economista e politico,
fondatore del centro ricerca Arel, ndr). Da un certo punto di vista si può
dire, anche, che la chiusura dell’Iri può trovare spiegazione nel fatto che,
con il tempo, era diventato un centro di corruzione non emendabile
dall’interno. A posteriori si può dire che si è buttato via il bambino con
l’acqua sporca. Ma io stesso me ne ero andato dall’Ansaldo per questi motivi
nel 1983, rifiutando di ricevere pressioni politiche perfino per le nomina dei
caporeparto.
E
cosa fece da ex direttore del personale dell’Ansaldo?
Ricominciai l’attività come se fossi un neolaureato,
aprendo una società di consulenza privata nel campo della gestione del
personale, organizzazione e strategie. In tale veste sono stato eletto, poi,
presidente di Assindustria Genova. Ho trovato un ambiente molto aperto e
nessuno ha mai fatto pressione di alcun genere. Nel primo discorso pubblico ho
preso posizione, condivisa da molti, a favore dei migranti.
Ha
comunque esercitato il suo ruolo in una città che aveva perso i cantieri
navali…
Come detto, la scelta
fu giustificata dalla strategia di concentrare il settore a Trieste, con la
compensazione dello sviluppo del settore energetico su Genova. Si ipotizzava,
in compensazione, la produzione, secondo il cosiddetto “piano Donat Cattin”, di
10 centrali nucleari all’anno. In città esisteva un concentrato di competenze e
di investimenti che rendeva credibile la prospettiva.
Una
prospettiva restata in piedi anche con l’accordo tra Berlusconi e la Francia,
collegato al trattato con la Libia, poi venuto meno con il referendum…
Esatto. Anche oggi l’Ansaldo nucleare possiede
competenze tali che la vedono tra i maggiori esperti mondiali nella dismissione
delle centrali nucleari.
Eppure,
anche con la dismissioni dell’Iri, Finmeccanica, ora Leonardo, vede la
partecipazione dello stato con il controllo del 30 % del capitale sociale. Cosa
impedisce un diverso orientamento produttivo della società?
Le ragioni di tale scelta vanno considerate all’interno
della storia degli ultimi decenni. Devo dirle che, da un po’ di tempo, sono
diventato un appassionato di geopolitica. Considerando certi movimenti che
accadono a livello mondiale, si possono intuire diverse spiegazioni. Uno dei
casi che ho approfondito di più è quello delle Br e l’uccisione di Aldo Moro,
arrivando alla conclusione che la realtà delle cose è stata ampiamente
artefatta per ragioni geopolitiche. Molto di quanto è avvenuto dopo trova in
quell’evento un punto di svolta.
A
detta di Gianni Alioti, sindacalista genovese, responsabile per un lungo
periodo dell’ufficio internazionale della Fim Cisl, l’Italia, e Genova in
particolare, hanno patito per scelte dissipative di un grande patrimonio
industriale di eccellenza.
È così. Eravamo all’avanguardia in determinati
settori di punta. Con il sostegno giusto di una regia pubblica avremmo
consolidato e visto crescere questa posizione. E, invece, si è scelto la
dismissione.
E
nella “città superba”, come si definisce Genova, che tipo di consapevolezza
esiste su questa complessa vicenda che la riguarda così da vicino?
Poco o niente. Rimarrà stupito, ma i pochi che se ne
rendono conto sono i cappellani del lavoro. In una città dove si registra una
decrescita demografica costante, contro alle aspettative di un tempo. Ma non
vorrei essere troppo determinato dal pessimismo dell’età.
Nessun commento:
Posta un commento