Migliaia di militari saranno schierati a metà giugno in Puglia a protezione dei lavori del G7 in programma a Borgo Egnazia, vicino Fasano, per timori di attentati e contestazioni verso un meeting esclusivo ma che si presenta come informale tra i vertici di Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America e quelli dell’Unione Europea.
È già fitta l’agenda di un G7 alternativo che ha avuto già un suo primo momento nella marcia organizzata il 14 arile 2024 da Foggia all’aeroporto militare di Amendola. Ne parliamo con Giuseppe La Porta del coordinamento Capitanata per la pace che ha organizzato la marcia e la serie di incontri che hanno preceduto la manifestazione itinerante.
Quale è la finalità principale della vostra azione?
Promuovere il disarmo anziché la corsa agli armamenti, educare alla pace e ai diritti umani anziché propagandare la guerra, favorire un'economia sociale e solidale anziché un'economia di guerra e rispettare i diritti umani e le minoranze anziché l'autoritarismo. Tutte proposte concrete che potrebbero contribuire a costruire un mondo più pacifico e giusto.
Cosa significa, per il vostro territorio, l’aeroporto militare di Amendola?
Molti di noi ricordano come nel 1999,
nell'Operazione "Allied Force" della NATO (non autorizzata
dall'Onu) contro la Jugoslavia di Milosevic per le uccisioni e le violenze
contro gli albanesi del Kossovo, proprio da Amendola partivano gli aerei belgi
ed olandesi che andavano a bombardare Belgrado ed altre città serbe. Fu allora
che organizzammo le prime iniziative di protesta davanti alla base e poi nel
2002 si svolse la prima marcia Emmaus-Amendola.
Hai un ricordo personale di quell’epoca?
Certo. In quei giorni di 25 anni fa, in classe con i miei studenti, sentivamo sulle nostre teste il rombo dei caccia che, decollati da Amendola, viravano sul cielo di Foggia prima di dirigersi verso i Balcani. Un'esperienza agghiacciante. E fu proprio in seguito a quei bombardamenti della NATO che le stragi degli albanesi e la pulizia etnica aumentarono...
E oggi?
Amendola ospita i
costosissimi aerei F35, potenzialmente armabili con missili a testata nucleare,
circostanza che suscita timori per la sicurezza a livello sia provinciale che
regionale.
La Base funge, inoltre, da centro di controllo,
di comando e di addestramento "di eccellenza" per i droni, “armi
disumanizzate e disumanizzanti” perché, per il loro uso in operazioni militari
a distanza, spersonalizzano ancora di più la guerra e rendono più
"asettica" l'uccisione, non solo dei "nemici", ma, come
sempre più frequentemente avviene, dei civili.
È anche inevitabilmente un luogo di esercitazioni militari…
Infatti ad Amendola si sono anche addestrati,
nell’esercitazione “Falcon Strike 2021”
, i piloti israeliani degli F35, magari quegli stessi che in questi mesi hanno
causato e stanno causando una carneficina o, più propriamente, un genocidio
nella Striscia di Gaza.
Vi siete imbattuti con il divieto imposto di arrivare all’ingresso dell’aeroporto…
È il terzo anno che accade e lo
reputiamo una restrizione ingiustificata e un
impedimento al nostro diritto di esprimere pacificamente le nostre opinioni.
Abbiamo avuto però la nota positiva della
presenza nella tappa finale della marcia, vicino la recinzione della base, della sindaca di Foggia, Maria Aida Episcopo
e dell'assessora Daniela Patano nella tappa finale, accanto alla recinzione
della base. Il sindaco di Corato, Corrado De Benedittis, ha preso parte
dall'inizio alla manifestazione.
Come rispondi a chi afferma che manifestare non serve a nulla se non si è capaci di fare proposte alternative credibili?
Innanzitutto parto da un’autocritica. Come
giustamente disse Alex Langer, politico e pacifista altoatesino, i movimenti
per la pace devono sforzarsi di essere sempre meno costretti ad improvvisare
per reagire a singole emergenze ed attrezzarsi invece a sviluppare idee e proposte
forti, capaci di aiutare anche la prevenzione, non solo la cura di crisi e
conflitti. Vorrei perciò richiamare
alcune delle diverse proposte presenti nel nostro documento di convocazione
della Marcia.
Cosa chiedete in pratica?
L’assistenza alla popolazione
di Gaza e il rifinanziamento dell’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il
soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente, ndr). La
promozione di conferenze di Pace dell’ONU per le regioni in guerra.
Il diritto di asilo a dissidenti, obiettori di
coscienza, disertori.
La ratifica dell’Italia del Trattato ONU di
messa al bando delle armi nucleari. La
difesa della trasparenza sull’export di armi italiane
la riduzione delle spese militari a favore della
spesa sociale, per la tutela ambientale e per una difesa civile nonviolenta. Ora,
tutto sta ad intendersi su cosa significhi “proposte credibili”.
Appunto, sono tutte istanze importanti ma difficili da realizzare.
È chiaro che nel pacifismo c'è un'insopprimibile tensione utopica, ma è anche vero, per dirla con il filosofo Ernst Bloch, che "nulla è più umano del superare ciò che è".
Riprendo allora, per esempio, la proposta della "ratifica dell'Italia del Trattato ONU di messa al bando delle armi nucleari", entrato in vigore nel gennaio 2021, ma non firmato dall'Italia, perché è membro della NATO ed "ospita" nelle basi di Aviano e Ghedi decine di bombe nucleari Usa. A scuola, in più classi, ho varie volte fatto questo semplice sondaggio: chi è d'accordo che l'Italia firmi questo Trattato? Di dissidenti, quasi zero. E sono sicuro che, se sulla questione si potesse fare un referendum (e non si può fare), la stragrande maggioranza degli italiani e delle italiane lo sottoscriverebbe. Qui si pone, come si vede, anche un problema di rappresentatività democratica delle scelte dei nostri governi.
C’è poi la richiesta della difesa della trasparenza sull'export di armi italiane…
L'attuale governo ha promosso una riforma della L. 185/90, che riguarda tale questione, rendendo l'export più opaco e meno rintracciabile il ruolo delle banche che lo finanziano. Non è credibile opporsi a questa “controriforma”?
Ma è l'ultima proposta quella su cui mi vorrei maggiormente fermare.
Cioè?
La richiesta dell'istituzione di una "difesa civile non violenta", la vera, grande assente nel dibattito pacifisti-"realisti" riapertosi dal giorno dell'invasione russa. Cito gli studi compiuti dalle ricerche di Erica Chenoweth, docente all'università di Harvard, che ha analizzato gli esiti di 325 campagne nonviolente di massa e di 303 campagne classificate come violente, tutte svoltesi tra il 1900 e il 2019. I successi della resistenza civile rispetto a quella armata sono stati del 59% contro il 27% nelle lotte interne antiregime, e il tasso di mortalità è stato di 1 a 22; in quelle contro l’occupazione di un Paese il successo della resistenza civile è stato del 41%, contro il 10% della resistenza armata. Dati interessanti, vero?
Puoi fare degli esempi di casi storici?
C’è sempre quello luminosissimo di Gandhi nella lotta per l'indipendenza dell’India dal colonialismo britannico che ha evidenziato il potenziale della nonviolenza nel lottare per la libertà e nel generare cambiamenti significativi. A proposito della resistenza danese durante l’occupazione nazista – Hannah Arendt ebbe modo di scrivere ne La banalità del male – “si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università ove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza”.
Ma come lo si può declinare nei conflitti attuali?
Nello specifico scenario russo-ucraino, in Donbass, territorio segnato dalla contrapposizione fra gruppi di lingua russa e ucraina, sarebbe stata necessaria la presenza dei Corpi Civili di Pace da ben prima del 2014, vero anno di inizio della “guerra”. Queste forze avrebbero potuto favorire il dialogo e la collaborazione tra le parti, in vista del fine sovraordinato della pace, impedendo così l’escalation del conflitto sino alla tragica situazione odierna.
Tra i promotori della
marcia c’è anche l’Ambasciata di Pace-Palazzo Dogana di Foggia. A cosa di
riferisce?
Palazzo Dogana è la storica sede della
Provincia di Foggia e il luogo dove si riscuotevano i proventi della
transumanza e si giudicavano e componevano i conflitti tra pastori e contadini.
È stato riconosciuto nel 2013 “Monumento
e sito messaggero di una Cultura di Pace” dall’Unesco per essere stato, nei
secoli, punto di riferimento per i popoli dell'Italia meridionale, ma già nel
2003 (l'anno della seconda Guerra del Golfo) una delibera dell’allora giunta
provinciale ha eretto idealmente Palazzo Dogana ad "Ambasciata di
Pace" per favorire la promozione sul territorio di una cultura di pace
intesa come diritto/ dovere all'accoglienza, al dialogo e alla valorizzazione
delle differenze per una trasformazione nonviolenta dei conflitti.
Cosa rispondi a chi dice che parlare di pace oggi aiuta l’autocrate Putin contro l’Ucraina che deve essere aiutata militarmente nella difesa dall’attacco russo?
Rispondo citando innanzitutto la frase di Gino Strada che abbiamo scelto per la XI Marcia per la pace Emmaus-Amendola del 14 aprile: "Le guerre appaiono inevitabili, ma solo quando non si è fatto nulla per evitarle". Non solo non si è fatto quasi nulla per evitare questa guerra, ma si è anche accuratamente evitato di perseguire la strada dei negoziati di pace, addirittura bloccandoli - è la testimonianza dell'ex premier israeliano Naftali Bennett - quando a marzo 2022 la via di un accordo tra Putin e Zelensky sembrava possibile, ma fu fatto fallire da Biden e dal premier inglese BorisJohnson .
Come pacifisti, il nostro obiettivo finale è "cacciare la guerra dalla Storia" e non vedo come esso possa essere approssimato alimentando le guerre ed il loro carico di dolore, di morte e di distruzione. Vorrei ricordare un'affermazione del filosofo B. Russell: "Nessuno dei mali che si vuole eliminare con la guerra è un male così grande come la guerra stessa". Questo non significa naturalmente assolvere Putin dalla sua enorme e criminale responsabilità storica e politica di aver riportato la "guerra grande" in Europa. Se vogliamo un mondo di pace, dobbiamo attuare azioni di pace, non di guerra, secondo l'efficace metafora gandhiana del rapporto, di necessaria coerenza, tra il seme che piantiamo e l'albero (la società) che vogliamo ottenere, tra i mezzi e il fine.
È in gioco anche un problema di credibilità della nostra democrazia, dato che vari sondaggi, sin dai primi mesi della guerra russo-ucraina, hanno mostrato che la maggioranza degli italiani e delle italiane è sempre stata contraria - ben conscia dei rischi di un'escalation che non può escludere il rischio concreto di un conflitto nucleare - all'invio delle armi all'Ucraina. Eppure non tutti/e hanno considerato anche il fatto che, con questa scelta l'Italia è diventata giuridicamente un paese di fatto "cobelligerante". Eppure la nostra Costituzione, nell'art. 11 "*ripudia* la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". Il "ripudio della guerra non vieta solo la partecipazione a conflitti armati - se non per la necessità di rispondere ad un attacco armato sul territorio italiano, precisa Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale a Padova - ma pure l'aiuto ai paesi in guerra: il commercio [e la fornitura] di armi con tali Paesi è illegittimo".
Abbiamo inviato armi per oltre due anni, e a cosa è servito? È certo servito a far arricchire i produttori e i mercanti di armi, ma soprattutto a far morire sempre più civili e soldati dei due fronti contrapposti, in una situazione di escalation militare che non esclude affatto la possibilità di un olocausto nucleare, come denunciato dal Segretario dell'ONU Guterres. Invece di armi, e di aumentare al 2% del PIL le spese militari, come chiesto dalla NATO, diffondiamo il messaggio che l'Italia è disponibile ad accogliere gli obiettori di coscienza, i renitenti, i disertori russi ma anche ucraini, perché, come è stato detto, "per far finire le guerre è necessario innanzitutto non farle".
Se posso infine aggiungere un'ultima considerazione, l'Italia ha continuato ad inviare armi ad Israele anche dopo l'inizio della sua risposta - che oggi si può definire "genocidaria" - all'orrendo attacco del 7 ottobre, contrariamente a quanto riferito da rappresentanti del governo italiano. E questo viola platealmente la L.185/90, che riguarda le norme sull'esportazione di armi e che le attuali forze di maggioranza vorrebbero purtroppo fortemente depotenziare, e che vieta espressamente tale esportazione verso Paesi "in stato di conflitto armato".
La provincia di Foggia compare all’ultimo posto nella classifica della qualità della vita. Una foto che farebbe supporre una presenza molto bassa della società civile organizzata, mentre un recente manifestazione di Libera e ora questa marcia racconta una diversa storia. Qual è la situazione effettiva a tuo parere?
Il nostro è un territorio certamente caratterizzato da preoccupanti indicatori di povertà economica ed educativa, ma, a detta anche di persone nate e vissute in contesti territoriali centro-settentrionali ed ora residenti a Foggia, la realtà associativa del capoluogo è molto ampia, vivace e differenziata. Conosco poi personalmente anche la situazione di San Severo e San Giovanni Rotondo ed anche in questi Comuni la situazione è piuttosto simile. Forse la difficoltà maggiore è quella di saper fare rete, di avere la capacità di superare una sorta di "individualismo associativo" che a volte impedisce una più efficace capacità di incidere nel tessuto sociale. Vorrei però citare due esempi che vanno in direzione diversa: la nutrita Consulta delle Associazioni a San Severo e la Consulta Provinciale per la Legalità, che ha sede nel palazzo della Provincia ed è una delle sole tre Consulte di questo tipo in Italia.
Per quanto attiene alla sensibilità e all'impegno per la pace nella città capoluogo, non posso non ricordare una serie di realtà che hanno operato e operano in tal senso. A partire dagli anni Settanta, la comunità salesiana della parrocchia del Sacro Cuore, in cui si dispiegò l'opera di grandi figure di sacerdoti e di educatori e che favorì la nascita del primo gruppo organizzato e “politico” di obiettori di coscienza. Negli anni Ottanta e nella prima metà dei Novanta, la sezione foggiana del Movimento Nonviolento, il movimento Insegnanti per la pace, l'Osservatorio Jugoslavia. A cavallo del passaggio di secolo, il Coordinamento contro la Guerra (nato nel 1999, come risposta alla guerra della NATO contro la Jugoslavia di Milosevic) ed il Coordinamento Obiettori di Coscienza alle Spese Militari, che entrò a far parte del Coordinamento politico nazionale della omonima Campagna. Non fu perciò un caso che, per qualche anno, il numero di "obiettori fiscali" della provincia - praticanti certo in grande maggioranza la versione più "soft" dell'obiezione, quella cioè che non si traduceva in un atto di disobbedienza civile - fu il più alto in Italia, superando anche quella di Milano, sede centrale della Campagna.
Negli anni Dieci, poi, la nascita dell'Ambasciata di Pace, di cui si è detto, e dopo l'inizio dell'invasione dell'Ucraina quella del Coordinamento provinciale Capitanata per la pace, promosso dalla suddetta Ambasciata.
Posso perciò concludere affermando che, nei decenni, si è seminato abbastanza. Il problema, come in altri luoghi, è quello di coinvolgere organicamente le fasce giovanili, che partecipano alle iniziative solo in date circostanze e situazioni.
Non avverti una certa assuefazione della società verso la deriva bellica?
Certamente. Vorrei partire dai miei ricordi di gioventù, quando gli stati europei occidentali, almeno loro, le guerre non le facevano, o ne facevano poche. È stata la Guerra del Golfo del 1991, contro l'Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait, a riportare pienamente la guerra nell'orizzonte politico delle possibilità. Dopo quella, anche per ragioni geopolitiche che qui non è il caso di analizzare, è come se si fosse aperto un varco: guerre Jugoslave, Somalia, Kossovo, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia...Questo, secondo me, ha contribuito al fenomeno dell'assuefazione, che si è visto chiaramente già dopo alcuni mesi dall'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina. Le nostre stesse riunioni settimanali, come Coordinamento Capitanata per la pace, all'inizio dell'estate 2022 erano già molto meno partecipate. Certamente, la durata del conflitto, la sua apparente staticità in termini militari, la percepita ripetitività delle notizie hanno favorito un processo di desensibilizzazione e di "stanchezza da guerra" nell’opinione pubblica. Qualcosa, anzi più di qualcosa, è certamente cambiato dopo il 7 ottobre, anche perché il conflitto israelo-palestinese è sempre stato di quelli più capaci di attivare reazioni e mobilitazioni.
Naturalmente, poi c'è tutta la questione della totale assenza di mobilitazione per le "guerre dimenticate", che sarebbe il caso di chiamare innanzitutto "sconosciute". Il problema è che così questi conflitti diventano meno importanti e urgenti anche per gli organismi internazionali e le diplomazie - naturalmente tranne quelle direttamente o indirettamente coinvolte - per cui esse durano di più, esprimono più ferocia, provocano più morti, devastazioni e flussi di migranti (che quindi arrivano da noi nella nostra più totale ignoranza di cosa accade "a casa loro", dove qualcuno dice retoricamente di volerli aiutare).
Perché avete deciso di partire dalla Comunità Emmaus?
Sin dalla sua prima edizione del 2002 la marcia verso Amendola è partita da lì. Mi piace rispondere con quanto postato sulla sua pagina Facebook da Linda Maggiori, scrittrice, giornalista e attivista per l’ambiente, una delle protagoniste del Convegno che ha preceduto la marcia il 13 aprile: “Bellissima questa marcia per la pace Emmaus –Amendola! Ho conosciuto persone fantastiche che lottano nei loro territori per la pace e l'ambiente. Ho camminato insieme a loro da Emmaus ad Amendola, due opposti, due luoghi simbolici divisi solo da 9 km. Da una comunità di speranza e accoglienza al secondo aeroporto militare più grande d'Europa, da cui partono gli F35 e i famigerati droni per le guerre del mondo! Da dove si cura la vita a dove si prepara la guerra. Teniamo alta la speranza anche quando tutto fa temere il peggio.”
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