Questa lunga intervista pubblicata come Extra di Città Nuova nasce dal desiderio di confrontarci con un autorevole docente della più prestigiosa università pontificia sulla questione della disobbedienza alla guerra.
Dialogo
con René Micallef, padre gesuita, docente di teologia morale presso la Pontificia
Università Gregoriana a Roma
A cura di Carlo Cefaloni e Raffaele Natalucci
Piazza della Pilotta a Roma ha la forma quadrata come il perimetro
dell’antico gioco che deriva da quello spagnolo della “pelota”. Era praticato,
un tempo, in questa parte del centro
storico che vede, ogni giorno, affluire studenti da ogni parte del mondo per formarsi
in una delle università più autorevoli della Compagnia di Gesù, l’ordine
fondato a Parigi nel 1534 dal basco Ignazio di Loyola assieme a 6 compagni animati
da una radicale scelta evangelica.
Con il gesuita maltese René Micallef, docente di teologia morale che ha
accettato di incontrarci, proviamo ad entrare nel merito di quella che viene
appellata come “l’antica festa crudele”, la guerra giustificata in qualche modo
proprio dalla teoria delle accademie prima ancora di essere praticata fino all’autodistruzione
completa del genere umano sulla Terra.
Senza andare troppo lontano, partiamo dall'appello di papa Benedetto XV
nel 1917 per fermare “l’inutile strage”, l’orrenda carneficina, il suicidio dell’Europa.
Nonostante tale invito accorato, i cristiani hanno continuato ad uccidersi tra
di loro perché erano tenuti ad obbedire all'autorità legittima. Non c’è stato
un invito all'obiezione di coscienza, alla disobbedienza.
Dai fatti di Sarajevo del 1914 ad oggi è
cambiato qualcosa?
Sì e no.
Certamente è cresciuta la coscienza, non solo dei credenti, dell’iniquità delle
guerre di aggressione. Un’altra cosa però sono gli interventi, a volte armati,
che può fare la comunità internazionale per proteggere le popolazioni
minacciate da genocidi o gravi violazioni dei diritti umani, e ai quali
qualcuno dovrà pure partecipare. A Sarajevo ci sono stato nell’estate del 2018.
Nel giro di poche ore, ho visitato l’angolo da dove è partito il tiro che ha
fatto scoppiare quella folle e orrenda vicenda che chiamiamo Prima guerra
mondiale, e ho anche visitato la mostra/museo sul massacro di Srebrenica,
“Galerija 11/07/95”, che mostra l’orrore del non fare niente, o del fare troppo
poco. Inoltre, a Sarajevo ho partecipato ad una conferenza internazionale sul
tema del degrado ambientale e della meschinità della politica attuale, due
fattori facili da sfruttare dai demagoghi e dai populisti di ogni etnia e
colore politico, che si nutrono di paure, liti e conflitti, e amano scatenare
la violenza.
A questo
punto, però, vorrei fare una piccola premessa. Sono nato a Malta, ex colonia
britannica, una delle zone più bombardate durante la Seconda guerra mondiale.
Da un lato si discute ancora se Malta si sarebbe dovuta arrendere o meno.
Dall’altro c’è l’orgoglio di mostrare la resistenza che ha fatto Malta sotto i
bombardamenti. Dopo l’indipendenza il piccolo corpo delle Forze armate maltesi
è stato coinvolto in alcune missioni di pace, ma non c’è mai stato l’obbligo
del servizio militare. Ho vissuto in Spagna, Francia, Inghilterra e Usa. Negli
Stati Uniti ho approfondito molto queste tematiche dalla prospettiva
statunitense, molto diversa da quella italiana.
Sono un
po’ scettico riguardo alle posizioni troppo radicali in materia, come quella
dei mennoniti negli Usa, perché il tema è complesso e bisogna poter dialogare
seriamente, apprezzando la prospettiva dell’altro. Per questo motivo, ho
scritto anche un articolo sulla tensione che ci fu ai tempi della redazione
della Gaudium et Spes, con
riferimento alla parte sulla guerra e sulla pace, tra vescovi americani e
vescovi francesi e italiani. Poi le cose si sono rovesciate: nell’83 i vescovi
americani hanno avuto posizioni più pacifiste volendo condannare la logica di
Reagan, per cui ai fini del disarmo sarebbe stato necessario prima espanderci,
e convincere l’Unione Sovietica che non ce l’avrebbe fatta a competere con la
Nato in una nuova corsa agli armamenti, per poi negoziare per il disarmo. Il
punto mio, però, è che come moralista e come educatore cattolico, mentre ammiro
e sostengo volentieri la visione pacifista o nonviolenta dell’attivista o
dell’obiettore, preferisco personalmente adottare letture più complesse e
posizioni più sfumate, per evitare incoerenze e rovesciamenti di posizione.
Quale logica seguì l’allora presidente
statunitense?
La logica
di Reagan fu quella di condurre un bluff:
parlare di guerre spaziali e iniziare ad investire di più per convincere così
l’altro che non ce l’avrebbe fatta, economicamente, a competere nella nuova
corsa agli armamenti. Giovanni Paolo II si convinse dell’argomento di Reagan,
che insisteva con lui che questo bluff, paradossalmente, serviva proprio per
lanciare il disarmo. Il governo Reagan chiaramente aveva fatto molto per
convincere il papa. Reagan mise in atto una vera e propria campagna, mandò
anche persone del suo gabinetto per convincere il Vaticano ad isolare i vescovi
americani. Ed è vero che ad un certo momento ci fu un intervento di Giovanni
Paolo II per calmare le acque. Nel frattempo, i vescovi europei divennero meno
“pacifisti” rispetto ad alcuni loro predecessori che parteciparono al Concilio.
C’erano eserciti alle frontiere dell’Europa ma il fatto di mettere dei missili
in Europa per attaccare altri Paesi era un fatto nuovo negli anni ’80. L’idea
di una guerra nucleare in Europa non era ancora stata considerata prima. A
questo punto i vescovi europei diventarono più cauti nel loro linguaggio sul
disarmo.
Questa
evoluzione è interessante. Ma dove siamo oggi? Certamente come cattolico e
religioso credo nella posizione radicale: bisogna dire no alla guerra. In
quando sacerdote religioso gesuita, faccio parte di una delle caste cristiane
nella quale si fa la scelta radicale di vivere una vita da nonviolenti.
Dall’altro lato penso che alcune cose sono cambiate dai tempi della Guerra fredda.
Rimangono alcune realtà belliche “classiche”, come l’annessione della Crimea da
parte della Russia, ecc., ma le guerre di espansione delle frontiere perlomeno
sfacciatamente non esistono più, anche se non è che non possano tornare. C’è
un’onda nazionalista e populista nel mondo che può farci tornare a quell’epoca;
ci sono interventi armati che hanno scopi economici ma si presentano come
guerre in difesa dei diritti umani. Nel passato avevamo guerre in cui gli Stati
mettevano in campo eserciti con tutte le risorse economiche a disposizione
secondo il modello clausewitziano: quando la politica non funziona, si cerca di
farla finita con un gioco di forze che dura fino a che la politica non
interviene a negoziare, però da una posizione di forza. Da questo modello
classico, si è passati a situazioni di guerre prolungate che non sono
propriamente delle “guerre”: alcuni parlano piuttosto di “conflitti” o “nuove
guerre”, nei quali non c’è un’intenzione di far terminare il conflitto ma di
farlo durare per lucrare dai traffici mafiosi, ad esempio il contrabbando di
minerali che comporta la riduzione in schiavitù della popolazione, ecc. Si è
passati dunque a conflitti prolungati, spesso gestiti da mafie e giustificati
anche da motivazioni religiose. La mia domanda è: come possiamo posizionarci
oggi come cristiani di fronte a tali conflitti? Questo sposta l’accento oltre
la mera questione del disarmo — sebbene adesso si stia aprendo tutta una
questione sulla cyber guerra, le armi laser, ecc., per cui si stanno spendendo
molti soldi, e quindi c’è una nuova corsa agli armamenti più nascosta della
quale bisogna pure parlare. Ma il discorso centrale sulla violenza e sul
conflitto tra comunità umane va riportato ad una realtà in cui si hanno
conflitti differenti dalla guerra tradizionale…
Una destabilizzazione che serve sempre ad altre
finalità. Ne parla Gianandrea Gaiani nell’intervista concessa per il dossier
sul disarmo di Città Nuova, sostenendo che l’interesse degli Stati Uniti è
quello di provocare una guerra violentissima, causando molte vittime per poi
ricostruire. Lui asserisce, da una posizione di destra, che si tratti di una
volontà degli Stati Uniti di destabilizzare il potere e la crescita
dell’Europa. Lei ha citato la Gaudium et spes, presumo, con riferimento
al dibattito relativo al superamento del concetto di “guerra giusta”. Quando
papa Francesco è andato negli Usa, ha detto di avere come riferimento 4
persone: Abramo Lincoln, sostenitore della guerra civile, Martin Luther King,
sostenitore della lotta nonviolenta, ma anche Dorothy Day e Thomas Merton,
entrambi considerati un riferimento per il pensiero pacifista. In particolare,
Thomas Merton, secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stato addirittura ucciso
nel ’68 perché il suo pensiero era la forma più resistente contro la guerra in
Vietnam dal punto di vista morale. Secondo Merton, bisognava liberarsi
dall’ipoteca di sant’Agostino, dalla sua concezione pessimistica della natura
umana e quindi dalla giustificazione della guerra. Sembra di poter dire che ci
troviamo su un crinale della storia. Crede che sia superabile il concetto di guerra
giusta anche se il concetto è rimasto all’interno del Catechismo della
Chiesa cattolica?
Dal punto
di vista morale si tratta di una terminologia che è problematica e contaminata,
poiché l’impianto della “guerra giusta” è stato usato nella modernità per
giustificare di tutto e di più. E, tuttavia, sempre dalla stessa ottica,
l’impianto non è da buttare via completamente. La questione delicata è fare
distinzione tra due modi di intendere la giustizia in questo ambito. Da un lato
la parola “giustizia” dice una posizione radicale di una Chiesa che vuole
essere luce del mondo, e proporre un’ideale che è quasi irrealizzabile: la pace
vera, shalom, il vivere tutti quanti
integrati ed integri, fisicamente, socialmente, psicologicamente,
spiritualmente, ecc. Da questo punto di vista, la violenza e la guerra sono
cose ingiuste, e dire “guerra giusta” è dire una cosa insensata. Dall’altro lato, però, l’impianto della
cosiddetta “guerra giusta” esiste proprio perché la guerra di per sé è cattiva,
e serve per rendere meno ingiusto e ingiustificabile il conflitto quando
diventa inevitabile.
La realtà
del conflitto tra esseri umani difficilmente può essere superata. Poi uno può
sognare un mondo dove regna la pace, e tentare di realizzarlo. Uno può mettersi
in croce invece di usare la violenza. Uno può guardare con speranza il Cristo
in croce che ci ha già salvato dal peccato e dalla violenza, e non prendere
altra iniziativa di fronte all’aggressione, tranne quella di battere sul petto
e riconoscere la sua complicità. Ma in questo mondo e in questo tempo, il
peccato e i suoi effetti rimangono presenti. Perciò serve anche una posizione
che vuole gestire la violenza nel mondo, giacché, fino a quando nel mondo esisterà
il peccato ci sarà sempre chi cercherà di usarla contro gli innocenti. Come
mettere, dunque, un limite per evitare che la società cada in un caos infinito?
C’è su questo aspetto un dibattito sano dentro la morale: da un punto di vista
pacifista radicale esistono alcuni, come i mennoniti, che non userebbero mai la
violenza. In teoria, perlomeno, anche se arriva un pazzo o un terrorista con un
arsenale in una scuola, il cristiano pacifista, con grande dolore, è disposto a
lasciar uccidere tutti i bambini perché crede fermamente nella nonviolenza e
non chiamerà nemmeno la polizia, per non provocare, con quella chiamata,
l’uccisione degli assalitori. Questa è forse la posizione più teorica e
radicale; pochi sono capaci di resistere alla logica di chiamare la polizia e
lasciare che qualcun’ altro faccia il lavoro “sporco” e usi la violenza letale
al posto loro.
Non so se
molti pacifisti e obiettori di coscienza, in Italia, abbiano pensato cosa fare
in una situazione del genere. Che non è un caso limite pensato a tavolino, ma
un’esperienza che alcune comunità pacifiste hanno dovuto affrontare in alcune
parti del mondo. Al di là delle risposte che ognuno di noi può dare, il caso è
interessante, perché serve a spostare il dibattito (e la terminologia) dalla
“guerra giusta” alla “pace giusta”: come possiamo noi avere condizioni di pace
in cui dare la garanzia alle persone innocenti che saranno protette dalle
aggressioni ingiuste? Fino a che punto possiamo noi, amanti della pace, usare
mezzi non letali, o se questi non funzionano, anche dei mezzi letali, per
proteggere l’innocente? Chi nella nostra società e nella nostra Chiesa può (o
deve) farlo? Creiamo una casta di violenti nella società mentre gli altri ci
lavano le mani e dicono di essere rigorosamente dei “nonviolenti”? Mi sembra un
po’ come con il caso classico dell’usura (nel Medioevo qualsiasi prestito con
interesse era considerato “usura”, e quindi peccaminoso e vietato per i
cristiani): noi cristiani non prestavamo denaro con interessi finché c’erano
altre persone che lo facevano. Possiamo accontentarci con una soluzione del
genere?
Alcuni
pensatori ammetteranno che ci possono essere delle situazioni limite in cui la
violenza è ammissibile per fermare disastri come un genocidio, ma che questi
casi limite non vanno pensati in teologia morale, né si deve prendere posizione
su cosa fare in queste situazioni, perché la casistica che ne risulterà
potrebbe essere utilizzata come argomento a sostegno della guerra. Altri invece
sostengono che sia necessario discutere su questi casi limite, che non sono
così rari nel mondo, e nell’ambito di tale discussione, i criteri classici
della “guerra giusta” ritornano perennemente in quanto strumenti utili per
capire come si può agire giustamente, o perlomeno accettabilmente, per conservare
la pace in situazioni particolari. Negli Stati Uniti esistono posizioni
estreme. Da un lato, ad esempio, vi sono alcune comunità che vivono l’ideale
pacifista in modo radicale e abitano in disparte rifiutandosi persino di pagare
le tasse per non sostenere le guerre, o i membri della Società degli amici
(Quaccheri) che vanno nelle zone di conflitto per missioni di pace mettendo a
repentaglio la propria vita. Dall’altro c’è chi ha una posizione realista e
utilizza la teoria della guerra giusta per legittimare le crociate per
democratizzare il mondo, e persino l’idea che sia legittimo iniziare una guerra
per difendere gli “interessi” del proprio Paese in ogni parte del mondo. Credo
che sia più saggio trovare una posizione più equilibrata, fondata sulla nonviolenza
attiva, ma realistica e attenta ad offrire delle forme reali di protezione per
le persone più deboli nel mondo violento nel quale viviamo.
“Estendere le proprie linee di difesa in
qualsiasi parte del m
ondo” come dicono i testi di strategia. La linea di confine è ormai in tutto il mondo, questa è l’idea, giusto?
ondo” come dicono i testi di strategia. La linea di confine è ormai in tutto il mondo, questa è l’idea, giusto?
Esiste un
dibattito molto interessante tra due fratelli teologi, H. Richard e R. Niebuhr
fatto nel 1932 sulla rivista The Christian Century. Il tema è
l’invasione giapponese in Manciuria. I giapponesi ritenevano che avrebbero
potuto fare quello che volevano, poiché il conflitto non interessava i popoli
europei. I due fratelli teologi si posizionano ai due estremi. Il primo adotta
una posizione pacifista: noi Stati Uniti non possiamo intervenire perché non
siamo la mano di Dio che incarna la giustizia e corregge gli errori; se succede
la cosa più orribile del mondo, ci penserà Dio (intervenendo in modo quasi
miracoloso, o risolvendo le cose alla fine del mondo), ma, se interveniamo lì,
entreremo con i nostri interessi e causeremo più danni che bene; utilizziamo
invece questa esperienza per purificarci affinché, vedendo la miseria delle
persone, il nostro cuore si converta. Reinhard Niebuhr, invece, insiste che non
è possibile che il cristiano non intervenga in una situazione del genere: la
sua visione dell'escatologia non è quella secondo cui Dio interverrà ex
machina per costruire un mondo migliore, ma si basa sulla concezione per
cui siamo noi che dobbiamo metterci all'opera per creare un regno umano che
rispecchi il mondo divino. Per fare questo, però, secondo Reinhard, gli Usa avrebbero
dovuto rischiare e intervenire per proteggere la popolazione della Manciuria.
Reinhard divenne con il tempo ancor più “realista”. È noto l’influsso che ha
avuto il suo pensiero su politici statunitensi come Obama.
Questo dialogo lo abbiamo presente. Il
responsabile dell'Istituto Sturzo, Giovanni Dessì, ha fatto un’interessante
analisi del discorso pronunciato da Obama in occasione della consegna del
premio Nobel. Nell’intervento di Obama emerge la consapevolezza che la guerra
non è giustificabile, ma comunque bisogna farla, accettando i limiti e le
contraddizioni. La domanda però è un'altra: partiamo da una situazione specifica
che è quella della Prima guerra mondiale. Noi diciamo che quella è stata una
guerra legittimata da determinati interessi. Nel caso italiano, infatti, ci
sono stati molti interessi da parte dell'industria e delle lobby, mentre la
massa dei cattolici era prevalentemente contraria all'intervento militare ed
era per la neutralità, ma alla fine ha dovuto obbedire. Nel 2003 quando lo
stesso papa Giovanni Paolo II si disse contrario all’intervento americano in
Iraq, “Mai più la guerra” campeggiava a caratteri cubitali sull'Osservatore Romano. Si trattava, come
poi si è visto, di una guerra giustificata dalla menzogna. Quella
consapevolezza doveva condurre a disobbedire. Non è tanto il fatto di essere
nonviolenti in maniera generica, ma di disobbedire ad un ordine ingiusto.
Prendiamo l’esempio del grande obiettore di coscienza a cui facciamo
riferimento: Frans Jägerstätter, padre di famiglia, sacrestano, contadino. Dopo
l’Anschluss del 1938, buona parte dell'intellighenzia cattolica austrica
è a favore della guerra, compreso l'arcivescovo di Vienna. Dopo un’esperienza
negativa nell’esercito, quando il 23 febbraio 1943 riceve la terza chiamata
alle armi come esercito nazista, e gli viene imposto di obbedire, Jägerstätter
rifiuta, non perché fosse contro il servizio militare come tale. Lui dice: «Io
non obbedisco a Hitler».
Nel discorso del 1940 ai militanti dell'Azione cattolica,
Pio XII dice: «Dovete obbedire legittimamente». Noi abbiamo obbedito nella Prima
guerra mondiale e nelle guerre coloniali e poi, nel ’40, a un regime fascista.
Eisenhower nel discorso di addio dice: «Le nostre armi sono necessarie,
dobbiamo armarci, però esiste il complesso militare-industriale, per cui ci
vuole una cittadinanza attiva e consapevole che possa resistere». Però dobbiamo
resistere, cosa ci impedisce di dire di no? Quando Igino Giordani fece riferimento,
nella proposta di legge del 1949, alla necessità dell'obiezione di coscienza,
padre Messineo, confratello della Civiltà Cattolica, affermò: «Ma se diciamo che
bisogna disubbidire, anche gli operai diranno che non possono fabbricare le
armi e infatti le leggi che limitano il traffico di armi in Italia le dobbiamo
agli operai che hanno fatto obiezione di coscienza». Mazzolari nel 1941, invece,
parla del dovere della rivolta. Come ci poniamo oggi davanti a questi dilemmi?
Grazie per
questa riflessione e questa domanda. Anche qui, dal punto di vista della
morale, il dibattito è interessante. Fate cenno a un certo “paternalismo
morale”, che rimane un problema in tutta la morale cattolica. Da un lato
parliamo della coscienza e del discernimento, ma quando la gente comincia ad
usare la coscienza e a discernere delle cose che non conformano con quello che
l’autorità suggerisce od ordina di fare, allora qualcuno comincia ad avere
paura. C’è sempre una parte della Chiesa che fa fatica ad accettare l’idea di
lasciare discernere il “semplice soldato” o il “semplice fedele”: pensiamo, ad
esempio, all’attuale diatriba intorno al capitolo 8 della recente esortazione
apostolica di papa Francesco, Amoris Laetitia.
Da un
lato, la Chiesa ha sempre parlato del valore della coscienza e l'idea
dell'obiezione di coscienza (nel senso generale, non solo nel contesto bellico)
è sempre esistita nella Chiesa, per lo meno dal punto di vista teorico
(pensiamo ai Padri apologisti, a Pietro Abelardo, a Thomas More…). Tuttavia,
per tanti secoli, si aveva paura di parlare di questo perché, si diceva, la
gente comune non ha gli strumenti per valutare bene le cose, e potrebbe
utilizzare tale strumento per giustificare di tutto e di più. Perciò, la
Chiesa, per lo meno durante l’epoca della Cristianità, ha sempre preferito
parlare poco della coscienza e mettere tutto l'accento sull’obbedienza della
legge. «Ecco ciò che dice il vescovo, ecco ciò che dice il principe: adesso tu
obbedisci, e non puoi mai sbagliare… semmai sbagliano loro e se la vedranno con
Dio». Certo, nella modernità, e su alcune cose estremamente serie come
sull’aborto, quando le autorità non-ecclesiali proponevano cose contrarie alla
posizione della Chiesa, allora sì che si inizia a parlare più facilmente di
coscienza: se il mio capo reparto mi dice di praticare l'aborto, se mio marito
mi obbliga a procurare un aborto, allora devo ascoltare la coscienza, allora
posso e devo fare obiezione di coscienza e rifiutare di commettere o cooperare
in questo male.
Su altri
temi, però, il pensiero cattolico ha avuto difficoltà ad allontanarsi da un
certo paternalismo e dire ai fedeli: avete la vostra intelligenza, formatevi e
prendete una decisione secondo la vostra coscienza, anche se quel giudizio di
coscienza può essere diverso da quello che vi dice di fare il vescovo o il
politico di turno (nei recenti casi degli abusi sessuali nella Chiesa, vediamo
cosa può succedere quando tanti fedeli ignorano sistematicamente, e per anni,
la loro coscienza, e obbediscono ciecamente a delle autorità religiose che
ordinano loro di non denunciare reati, di distruggere prove, ecc.). Certamente,
nella modernità sussisteva nella Chiesa una grande paura del disordine,
specialmente dopo tutte le rivoluzioni del XIX secolo. Anche Pio IX, che
come papa aveva iniziato sostenendo posizioni molto favorevoli alla libertà, a
un certo punto e in un contesto del genere è diventato autoritario e
paternalista, ostile alle idee moderne che davano importanza all’individuo e
riconoscevano la sua maggiore età, la sua autonomia morale.
Dopo
l’esperienza della Seconda guerra mondiale, e tutto il danno che è stato fatto
perché tanta buona gente non ha fatto niente, o ha cooperato con il male,
convincendosi che l’autorità che lo ordinava era legittima e che quindi
bisognava semplicemente obbedire, c'è stata tutta un'evoluzione, anche sul
pensiero della guerra. Nella Gaudium et spes è stata introdotta l’idea
dell'obiezione di coscienza, ma in modo molto diplomatico, nell’ottica di
rispettare chi fa questa scelta. È interessante la pastorale dei vescovi
statunitensi dell’83, The Challenge of Peace, che mette quasi sullo
stesso piano la scelta pacifista e la teoria della guerra giusta. Secondo
questa visione, un cristiano può scegliere questo o quello come fossero sullo
stesso livello, e l’obiezione di coscienza (riguardo all’uso della violenza)
non si pone più fuori dalla teologia ufficiale.
Certamente,
alcuni cristiani rimangono scettici rispetto a questa evoluzione e questo testo
dei vescovi statunitensi. Dal punto di vista più paternalista, se la guerra non
è giusta, questo dovrebbe essere evidente al vescovo che ti dirà cosa fare: non
è compito tuo stabilire la giustizia o meno di una guerra, e se i vescovi non
si sono pronunciati, non spetta a te dirlo o dubitare della decisione del
principe o del governo di turno. C’è sempre chi preferisce vedere, quando il
singolo parla di coscienza, una razionalizzazione di un comportamento egoista.
C’è chi, addirittura, adotta un atteggiamento cinico ogni volta che si usa la
parola “coscienza”: ad esempio qui, chi vede l’obiettore come un free loader, un “sanguisuga” che in fin
dei conti approfitta della giustizia, pace o prosperità che gli procura la
morte del suo fratello soldato, senza dover rischiare niente.
È ovvio,
specialmente con il magistero di papa Francesco, che questo cinismo rispetto
all’invocazione della coscienza sta diminuendo in alcuni ambiti ecclesiali.
Quindi, c’è stata una maturazione come Chiesa, anche se restano dei passi da
fare. Sicuramente, c’è una responsabilità nell’affermare l’obiezione di
coscienza; non basta dire: seguite la vostra coscienza. È necessario che la
gente sia davvero formata. Oggi le persone si informano su Internet,
basandosi a volte su dicerie e “bufale”; invece per formare la coscienza
ci vogliono notizie vere e analisi attente dei fatti, cose difficili da
reperire. Oggi neanche le grandi agenzie riportano certe vicende umane
importanti (ad es. le violazioni di diritti umani nella Repubblica
Centrafricana, nello Yemen…). Perciò, non bisogna essere ingenui e pensare che
il cittadino medio possa assorbire, digerire e discernere cosa fare per
promuovere la vera pace, di fronte a un mondo così violento e complesso, senza
un vero accompagnamento spirituale e morale. Senza cadere di nuovo nel
paternalismo e nel cinismo che non prendono sul serio l’intelligenza e la buona
volontà del singolo, non bisogna dimenticare che il cittadino medio si intende
poco di geopolitica, e preferisce vedere cose più piacevoli su Internet e sui
media, i quali non forniranno gli strumenti per una cittadinanza attiva e una
saggia militanza a favore della pace. Prima, lo Stato gestiva forse in modo
paternalistico la comunicazione, però nelle democrazie, in generale, si davano
delle informazioni abbastanza obiettive alla gente; oggi tutto dipende dai
soldi della pubblicità e si preferisce dare informazioni che fanno scalpore. In
questo contesto, si fa fatica a fare discernimento e viviamo in una sorta di
campana di vetro; non andiamo ad approfondire determinate notizie.
Perciò,
credo che l’obiezione di coscienza e ogni impegno serio a favore della pace
abbiano senso se accompagnate da una sorta di ascesi nella quale apriamo gli
occhi del cuore costantemente alla sofferenza del mondo, e lasciamo aperta in
noi questa ferita, invece di vivere sereni e contenti illudendoci che nel mondo
tutto va abbastanza bene, e basta non fare niente per essere “pacifici”.
Occorre fare uno sforzo, informarci delle cose che gli interessi economici non
vogliono che seguiamo, e poi fare un’obiezione di coscienza intelligente.
Nello Yemen, ad esempio, vengono bombardati gli
ospedali. Noi stiamo chiedendo che si blocchi la vendita di bombe all’Arabia
Saudita; a partire dalla Sardegna c'è un movimento forte che sta portando
avanti questa lotta.
Ricordo di
aver firmato petizioni in questo senso. In Inghilterra c'è tutta una rete che
chiede di fermare questo traffico di bombe verso l'Arabia Saudita che le utilizza
senza criterio. Ma la risposta è che si tratta di un grande cliente, che non si
possono fermare questi affari, che i sauditi sono un importante alleato
“nostro” e degli Stati Uniti.
Anche in ambito ecclesiale capita di sentire
questa tesi: «Se lo fermiamo noi questo traffico di armi, lo faranno comunque
altri».
Essendo un
moralista, mi piace complicare un po’ le cose. La questione è delicata, e in
questo caso credo che l’argomentazione non abbia fondamento, ma bisogna
chiedere “come” e “perché” lo faranno questi “altri”, e sentire bene gli
argomenti di chi fa questa obiezione, per rispondergli seriamente. Alcune
considerazioni possono essere: il rischio della perdita dei posti di lavoro da
un lato, dall’altro la possibilità di controllare il tipo di armi vendute
(magari, se lo facessero altri, venderebbero armi ancora più letali). Dal punto
di vista teorico e dal punto di vista del discernimento della persona non sono
argomenti da scartare, e bisogna capire fino a che punto si tratta di
cooperazione con il male, e fino a che punto è tolleranza del male. Tuttavia,
il nodo centrale della questione è un altro: penso che molti Paesi dovrebbero
prendere l’iniziativa verso il disarmo limitando anche gli armamenti “convenzionali”
che vendono ad altri Paesi. L’economista Leonardo Becchetti parla spesso del
potere del cittadino, che può fare delle scelte importanti “con il
portafoglio”. In alcuni casi possiamo convincere le banche (e le Chiese, le
università, i sindacati, i fondi pensione) a non finanziare e a non investire
nella filiera di armamenti. Penso che bisogna attivarsi in tutte queste direzioni.
Lei ha parlato di paternalismo. Nel momento in
cui ci si affida alla coscienza, si ha il timore che si possa utilizzare questa
coscienza senza una direzione autorevole. Tuttavia, in questi casi citati c'è
stata una direzione autorevole: durante la Prima guerra mondiale, ad esempio,
il massimo magistero della Chiesa aveva parlato di inutile strage. Che cosa
impediva di disobbedire? Il fatto che rimaneva questo criterio agostiniano di
obbedire all'autorità. La stessa cosa è accaduta nel 2003: si è condotta una
guerra non giustificata, si sapeva quello che sarebbe accaduto — ossia un
genocidio che avrebbe destabilizzato il Medio Oriente e distrutto anche le
comunità cristiane —, allo stesso tempo però non si è detto che l'ordine di
Bush andava disobbedito.
Nel 2011 la stessa cosa, siamo andati a
bombardare la Libia, anche lì non c’erano motivazioni, è stato un intervento
che l'Italia ha sostenuto – lo stesso generale Camporini dice che questo
intervento è stato una follia –, tuttavia abbiamo fatto 650 operazioni di
combattimento. Abbiamo visto il caso del militare americano che di recente ha
affermato di disubbidire nel caso di un ordine proveniente da Trump volto ad
utilizzare armi nucleari. Ci troviamo di fronte a un’ipotesi di disastro
immenso, un punto di non ritorno. Ora bisogna introdurlo questo aspetto,
altrimenti non si è coerenti. Si rischia di dire una cosa e poi allo stesso
tempo si dice il contrario.
Ci sono
delle cose molto chiare: l’ordine di utilizzare per primi dei missili
strategici nucleari (cioè, quando l’attacco nucleare non è iniziato
dall’altro), o, in ogni caso, l’ordine di fare uso di un’arma nucleare che non
sia estremamente mirato (affinché possa colpire solo dei bersagli militari) è
assolutamente inaccettabile, dal punto di vista morale. Non si può obbedire a
un ordine così, anche se viene direttamente del presidente degli Stati Uniti o
dalla massima autorità politica del proprio Paese. La pastorale The
Challenge of Peace, scritta dai vescovi statunitensi nell’83, indica che è
praticamente impossibile immaginare un uso delle armi nucleari che sia conforme
ai tradizionali princìpi della “guerra giusta”, e se è proprio così, si
escluderebbe ogni uso possibile di quest’arma. Su quel livello, quindi, la
questione è abbastanza chiara.
Su altre
cose, sono possibili invece delle interpretazioni multiple. Come si rispettano
la coscienza e la capacità di discernimento dell’obiettore, bisogna anche rispettare
quelle del militare e del cittadino che si è lasciato convincere degli
argomenti di Bush e di Blair. Bisogna essere attenti a non chiedere troppo
facilmente alle autorità ecclesiali alcune prese di posizione normative che
obbligano il fedele in coscienza, anche se a favore della pace, perché si
passerebbe così a un nuovo paternalismo. In più, non ogni pronunciamento che fa
un pontefice ha la stessa autorità, e non si può leggere in ogni critica che fa
un papa di un’azione militare o politica una chiara condanna che vieta la
partecipazione del cittadino o del fedele in quell’azione o la collaborazione
con essa.
In molte
occasioni può sussistere un sano pluralismo di opinioni nella Chiesa, che non
va soppresso violentemente con una decisione dall’altro. In alcune occasioni,
ovviamente, il pluralismo può scandalizzare la gente. Durante la Prima guerra
mondiale, c'erano delle autorità ecclesiastiche secondo cui la guerra che
conduceva l’esercito della loro nazione era giustificata, mentre non lo era quella
dell’esercito avversario. Il Vaticano non voleva mettersi a dire chi avesse
ragione e chi torto. Si è giocato su quest’ambiguità. Se una guerra è giusta,
per forza di cose, c’è chi deve avere ragione e chi torto, e, quando tu hai due
autorità ecclesiastiche che si trovavano sui fronti opposti e dicono: «Noi abbiamo
ragione e voi avete torto», certo, questo confonde la gente.
Ci si consacrava al Sacro Cuore da entrambe le
parti.
Sì, e
questo fa dubitare della serietà della morale della Chiesa cattolica. Ma in
altre occasioni, imporre una falsa uniformità del pensiero nella Chiesa, come
si soleva fare nei regimi totalitari, e obbligare vescovi e teologi a ripetere
una sola posizione ufficiale, anche quando palesemente non li convince, può
essere altrettanto scandaloso e dannoso per la morale.
Già la Seconda
guerra mondiale, ad esempio, era un affare più complesso. Pio XI aveva scritto
dei testi contro il fascismo e il nazismo, come la Mit brennender Sorge del
1937, anche se poi a un certo punto la Chiesa, per poter difendere gli
innocenti concretamente e nella pratica, ha preferito tacere su alcune cose ed
evitare delle condanne dirette o degli inviti all’obiezione di coscienza. Penso
che adesso abbiamo una situazione mondiale in cui ci sono dei papi che hanno la
capacità e il coraggio di condannare non solo la guerra in generale, ma anche
le guerre concrete, e i loro pronunciamenti sono rispettati anche dai non
cattolici.
Detto questo,
rimane il fatto che, fino a un certo punto, si gioca con le informazioni
riservate, specialmente quando si attacca un altro Paese sulla base della
violazione delle condizioni di pace o delle risoluzioni dell’Onu, o quando si
invoca la dottrina dell’attacco anticipato (pre-emptive
strike) di fronte a un “pericolo imminente”. I governi dicono: «Abbiamo
informazioni certe su questa violazione o su questa operazione bellica
imminente, ma non possiamo rivelarle, perché non sono documenti destinati ad
uso pubblico e non possiamo tradire le nostre fonti». Non è da scartare
completamente il caso in cui ci siano gravi violazioni dei diritti umani in
atto, ad esempio dei genocidi, e alcuni dei nostri dirigenti politici hanno
accesso a dei documenti che lo provano ma che non possono rendere pubblici: questa
rimane una possibilità, fino a un certo punto. Fidarsi della parola di un
politico in casi del genere rimane un’ipotesi da considerare. Poi bisogna
vedere qual è questo politico, quali sono gli interessi in atto, quali sono le
opzioni per rispondere all’aggressione o la barbarie della quale si parla.
Ma ci sono
anche dei processi politici che ci offre la democrazia. Il cittadino ha il
diritto di chiedersi: perché a queste informazioni deve avere accesso solo l’esecutivo?
Ad esempio, in alcuni Paesi come gli Stati Uniti ci sono dei comitati del
Congresso e del Senato che possono avere un accesso limitato a questi
documenti, e quindi decidere in nome del popolo che rappresentano se ci sono
effettivamente delle prove inconfutabili di violazioni di diritti umani molto
serie, come un genocidio in atto, o se non lo sono per niente. Se l’esecutivo
non vuole condividere quest’informazione con altri rappresentanti politici in
cui ho fiducia, allora la cosa puzza. Secondo me, è sbagliata l’idea che solo
il presidente (o il primo ministro) possa conoscere la realtà, possa decidere
da solo (semplicemente perché è eletto), e possa chiedere l’approvazione del
Parlamento senza mettere i nostri rappresentanti in condizione di fare questo
discernimento. Significherebbe trattare tutti da bambini, anche i nostri
rappresentanti politici! Di più, in questi casi dovrebbero essere coinvolti
anche rappresentanti della società civile, ad esempio dell’università, delle
religioni e movimenti che possono valutare queste prove, attenendosi al
segreto, per potere dire al pubblico se stimano giustificato o meno
l’intervento umanitario.
Certamente,
avere un sistema di controlli, di checks
and balances, aiuta a evitare conflitti ingiustificabili, ma anche un
gruppo di persone integre e dotte può sbagliare. A posteriori è facile
dire se l’intervento fosse giustificato o meno da ragioni umanitarie. Per
questo non commenterò l’intervento in Libia che ha fatto cadere il regime di
Gheddafi, che, secondo me, viene usato troppo facilmente qua in Italia per
criticare la dottrina della Responsabilità di Proteggere i politici di
quell’epoca: come dimostra il mio confratello gesuita Paul Tang Abomo nel suo
libro sul tema, R2P and the US Intervention in Libya, la vicenda era
abbastanza complessa. Secondo Tang Abomo, la risposta iniziale era
probabilmente giustificata, e gli sbagli e le mancanze sono avvenute in un
secondo momento. In generale, Obama rispettava le mediazioni e si confrontava
con chi non era d’accordo con lui; non credo che si possa dire lo stesso di
Trump. Ma Obama ha fatto cose più problematiche dell’intervento in Libia,
specialmente riguardo al programma dei droni. Molti conflitti nei quali
intervengono gli Usa, oggi, sembrano a basso livello, e non richiedono che il
Congresso voti per approvare certe azioni belliche. Così vengono meno i sistemi
di supervisione e di controllo del potere esecutivo. Ad esempio, l’eliminazione
fisica dei nemici mediante i droni avviene senza che il cittadino possa avere
una vera conoscenza e un reale controllo di quello che si sta facendo a suo
nome.
I droni,
l’enhancement dei soldati e gli strumenti della cyber-guerra oggi stanno
provocando una nuova corsa agli armamenti: quando Trump parla del nucleare nel
contesto dei battibecchi con Kim Jong-Un, mi sembra che ci stia gettando del
fumo negli occhi per non vedere che oggi il problema sta altrove. Penso che si
possa e si debba andare verso una politica del disarmo più radicale e
complessivo, ma per fare ciò, bisogna avere il coraggio di affrontare le vere
cause dei conflitti. Non risolvere il problema palestinese è un modo di
garantire una perenne instabilità nel Medioriente. Ci sono ovviamente interessi
affinché continui questa situazione: finché c’è il petrolio, continueranno a
vendersi armi, ecc. Rimane molto delicato criticare presidenti e politici
israeliani che non ci credono veramente nei negoziati per la pace, perché
troppo facilmente viene usata l’arma dell’antisemitismo contro chiunque critichi
il governo israeliano. Certo, il vero antisemitismo esiste, e i governi europei
devono essere attenti a non incoraggiarlo a casa loro, criticando lo Stato di
Israele, ma così ci troviamo in una situazione di impasse. Occorre prendere posizione e proporre soluzioni reali per
risolvere quel problema, che sempre più è diventato uno strumento di propaganda
e indottrinamento, usato per creare cellule jihadiste fra noi, come prima
c’erano cellule di terroristi comunisti. E il terrorismo, poi, offre al
politico populista l’occasione ideale per costruire e accumulare armi con il
consenso dei cittadini, e per trovare nemici “visibili” contro cui usarle.
Rimaniamo sul tema del conflitto tra ragion di Stato
e ragioni della coscienza. Nel corso della storia si è passati da uno Stato che
decideva in modo assolutista giustificando i propri atti sulla base degli arcana imperii, i misteri del potere,
fino a raggiungere progressivamente una maggiore trasparenza dei pubblici
poteri. Ciò è stato possibile anche grazie alla separazione dalla sfera
spirituale. Prima si è parlato delle pressioni esercitate sulla Chiesa da
gruppi portatori di determinati interessi. In questo senso è significativo il
dibattito sorto intorno a un’istituzione come quella dei cappellani militari.
Il coordinatore di Pax Christi, in un’intervista alla rivista Città Nuova, ha espresso una posizione
al riguardo sostenendo la necessità di distinguere i cappellani che operano
nell’esercito dalla gerarchia militare, svincolando il sacerdote
dall’inquadramento nell’ordinamento militare. Non potrebbe questa essere una
via per consentire alla Chiesa di esprimere le ragioni della coscienza più
liberamente e in modo indipendente dalle ragioni di Stato?
In questi
ultimi decenni si sono fatti dei passi avanti. Il papa non è più re, anche se
rimane la Sede apostolica, con il suo apparato politico e diplomatico, e
restano alcuni simboli del vecchio potere temporale su cui si può discutere.
Non voglio entrare in merito alla singola proposta del coordinatore di Pax
Christi; non conosco molto l’ordinamento militare italiano. Penso però che si
possano ripensare e rinegoziare tante cose, anche in vista della realtà
militare attuale che in tutto il mondo tende verso strutture snelle e meno
formali, e verso la compresenza di vari contractors
privati con inquadramenti particolari nel mondo militare. Forse ci sono delle
complicazioni dal punto di vista della legge internazionale; ad esempio, può
essere difficile in zona di guerra identificare le persone che non sono in
divisa o non sono in una struttura dell’esercito.
Nelle
“nuove guerre” — cioè nei conflitti asimmetrici attuali — spesso si gioca su
questo aspetto, cercando di eliminare la distinzione tra civile e militare. Da
un lato è vero che questa distinzione è artificiale e artificiosa perché nel
caso di coloro che costruiscono i droni, che li mantengono, che fanno i
programmi, la differenza tra civile e militare è difficile da fare. Dall’altro
lato, bisogna evitare di concludere che qualsiasi civile può essere un
bersaglio per un’azione militare, semplicemente perché in un modo o in un altro
ha partecipato alla costruzione di questi strumenti. Si rischia di tornare a
giustificare la guerra totale. Ecco alcune delle grandi problematiche su cui
sono portato a riflettere.
La
differenza tra civile e militare è utile a proteggere le persone più
vulnerabili e tutelarle. Tradizionalmente, essere in divisa voleva dire essere
un bersaglio legittimo e poter essere ucciso. Voleva dire spogliarsi dal potere
della veste sacerdotale che può mettere in panico il soldato nemico nel campo di
battaglia e salvarci la vita. Oggi la guerra con campi di battaglia definiti ed
eserciti schierati uno contro l’altro praticamente non esiste più, e il
cappellano militare che va in giro con la divisa militare corre il rischio di
essere identificato con il militare e quindi con la violenza.
Faccio
un’osservazione critica. Ci sono persone nel mondo ecclesiastico che sono
attratte dalla divisa e dai ranghi di autorità; qualche volta ciò è dovuto al
solito clericalismo, altre volte è semplicemente un fascino che si ha, già da
bambini, per gli aspetti formali ben presenti nella tradizione di una Chiesa
organizzata già dai tempi di Costantino secondo le strutture dell’esercito
romano. È logico e normale per tanti preti che amano esibire un’identità forte,
quando si ritrovano in un contesto militare, che si possano e si debbano avere
i gradi, la divisa, ecc. del corpo al quale appartengono. Non tutti avranno la
capacità di resistere a questa logica o di metterla in discussione.
In molti Paesi
dove la Chiesa ha dovuto affrontare la questione degli abusi sessuali e altre
violenze su minori e persone vulnerabili perpetrati da preti e religiosi, si è discusso
molto il tema dell’abbigliamento dei chierici e dei religiosi e quello del
riconoscimento dell’autorità e del potere reale che hanno. Se ci vestiamo in
abito clericale è per dire chi siamo e per proteggere le persone; è anche per
poter essere riconosciuti e accusati se facciamo del male alle persone. Anche
la divisa militare va vista un po’ in quest’ottica: dice il rapporto
professionale, il dislivello di potere, e quindi il bisogno di trasparenza, il
dovere di seguire pratiche che proteggono le persone vulnerabili, e il dovere
di individuare e denunciare quelli che abusano del loro potere morale, fisico o
burocratico. C’è una sorta di rapporto professionale tra il sacerdote e le
persone che accompagna spiritualmente. Ma occorre essere attenti a non cadere
nell’ottica del professionalismo in cui vige la logica delle promozioni, degli
onori, degli orari fissi, «questo è nella mia competenza ma questo no», ecc.
Inoltre,
credo che in questo dibattito ci siano anche due psicologie diverse. Da un lato
esistono quelli più “sessantottini”, più informali, etc., che vanno in giro
cercando di convincere gli altri che, malgrado la loro età, sono sempre dei
ribelli o dei contestatori; dall’altro ci sono persone più formali, che in modo
un po’ adolescenziale reagiscono alla generazione della contestazione facendo
proprio il contrario. Specialmente oggi, ci sono dei giovani preti che cercano
nella vita sacerdotale, e nell’abito clericale sempre più vistoso, un modo di
schierarsi in un mondo postmoderno eclettico e liquido. Immagino che
quest’ultimi sono più attratti dal mondo militare e che per essi sia un grande
onore poter portare la divisa militare. Questo ci fa capire che, in questo
dibattito, se metti a confronto un sacerdote di Pax Christi e un cappellano
militare, possono avere uno stesso impianto teologico ma diverse psicologie e
un diverso modo di vedere i simboli e la formalità.
Molto del
nostro universo religioso è fatto di simboli: i simboli hanno un potere
sacramentale se usati bene, ma se abusati possono diventare uno strumento di
forza per imporre un potere sugli altri. Di fronte ad alcuni simboli varie
persone possono avere relazioni diverse. Idealmente a me piacerebbe una Chiesa
che si staccasse sempre di più dai simboli militari. Senza banalizzare il
problema, penso che si possa trovare oggi, dopo la Guerra fredda e nell’ambito
dei conflitti “informali” attuali, il modo di stare nei luoghi di conflitto con
i nostri simboli, con il nostro modo di vestire, e con i nostri comportamenti
in quanto sacerdoti e religiosi, amanti della pace, e a servizio di tutti.
Per questo il cappellano, fuori dalla struttura
militare, può esercitare quel discernimento più liberamente che stando dentro
la struttura, non cedendo all’obbedienza nel caso di ordini ingiusti. In questo
senso la forma diventa sostanza. Chiaramente un superiore ha sempre un potere
molto forte nell’ambito della gerarchia.
Prima abbiamo parlato della difficoltà di
definire “giusta” una guerra. Durante il conflitto nell’ex Iugoslavia, in
ambito cattolico si giustificò un intervento militare in chiave umanitaria. Più
di recente, papa Francesco ha chiesto alle Nazioni Unite di intervenire per
proteggere le comunità yazide dalla minaccia dell’Isis. Il rischio, come si è
visto in diverse occasioni, è quello di utilizzare la teoria della guerra giusta
per ammettere l’esportazione della democrazia con le bombe. È possibile
individuare dei requisiti in base ai quali si possa parlare di “guerra giusta”?
In primis,
come accennato prima, penso che non bisogna parlare di guerra giusta, perché dà
l’impressione che il male sia giusto: la guerra è un male. Certamente, dal
punto di vista morale si distingue fra male fisico e male morale: la guerra,
per il fatto di distruggere vite umane e beni è già un male fisico, e
certamente qualcuna delle due parti sta facendo anche un male morale
(aggredendo ingiustamente l’innocente, o resistendo ad un giusto intervento per
proteggere l’innocente); dunque non si può facilmente affiancare a tutto ciò il
termine “giusto”. Le lingue moderne tradiscono l’intento delle espressioni
latine, quali la ius ad bellum e la ius in bello. Si deve parlare
semmai di guerra “giustificata”, cioè fatta secondo criteri che possono
veramente giustificare un intervento militare o renderlo moralmente
tollerabile. Le opere di Agostino, Tommaso, De Vitoria enunciano tali criteri,
si parla in tal caso dello ius ad bellum e dello ius in bello. In
particolare, si fa riferimento alla “retta intenzione” e alla “causa giusta”.
Oggi la causa può essere “accettabile” solo se coincide con l’esigenza di
difendere sé stessi o le persone innocenti da un’aggressione. Il requisito
della “giusta causa” risponde alla logica della responsabilità di proteggere e
difendere persone vittime di genocidio o di gravi violazioni di diritti umani,
quando le persone normalmente deputate a proteggerle non possono o non
vogliono farlo, e quando si sono, in pratica, esauriti gli altri
mezzi diplomatici, e, inoltre, quando esiste un’urgenza, come nel caso del
genocidio del Rwanda.
Oggi non è
più giustificabile la guerra di aggressione. Come accennato prima, rimane un
dibattito, una piccola finestra, sulla guerra di difesa preventiva, ad esempio
la guerra del Kippur del ’67: in quel caso si sapeva che Israele sarebbe stata
attaccata di lì a poco e si è intervenuti un giorno prima. Questa è stata
interpretata come una guerra di difesa anticipata, poiché c’erano prove chiare
che l’altro era sul punto di attaccare. Tale principio è stato usato da George
W. Bush per giustificare tante cose nella sua “guerra al terrorismo”, anche se
l’imminenza di un attacco terroristico è molto difficile da determinare, e gli
Usa non sono un piccolo Paese circondato dagli eserciti del nemico, un Paese
che può permettersi la tracotanza di agire per primo di fronte a una minaccia
che lo può cancellare dalla mappa mondiale, come fu Israele in quell’occasione.
Perciò, tale criterio è stato molto criticato. Alcuni hanno sostenuto che la
tesi della difesa anticipata è utilizzabile molto raramente, solo quando si è
sul punto in cui l’altro sta per attaccare per cui se ti attaccasse per prima
perderesti “automaticamente”, e quindi l’unico modo di salvarsi è attaccare per
primo. Altri mettono in discussione il criterio in sé stesso e vogliono che
venga esclusa ogni forma di difesa anticipata, e così, l’unica causa accettabile
per prendere le armi sarebbe l’autodifesa o la difesa di una popolazione
innocente vittima di barbarie (letta come una forma di autodifesa nella quale
partecipiamo in quanto membri del genero umano, e quindi fratelli e sorelle
delle vittime).
Un altro
requisito è la probabilità di successo: se intervengo militarmente pur sapendo
che perderò, ma il mio scopo è salvaguardare l’onore e non apparire codardo,
questo non è un motivo giustificato per entrare in guerra. Poi c’è la questione
della proporzionalità che rientra nel ius in bello, ad esempio: se
qualcuno ti attacca con un machete non puoi contrattaccare usando l’arma
nucleare: occorre cioè rispondere con la stessa intensità. Forse ci sono,
ancor’oggi, dei politici pazzi pronti ad aggredire i loro vicini sapendo di non
avere mezzi per vincere, ma normalmente chi attacca lo fa perché pensa di
essere più forte. Un ulteriore criterio, al quale abbiamo accennato prima, è
quello della tutela della popolazione civile, distinguendo bene tra combattenti
e non-combattenti, ed evitando qualsiasi violenza contro quest’ultimi. Se
questo criterio non viene rispettato, si cade nel terrorismo (esiste anche il
terrorismo di Stato) o nella guerra totale.
Come insegna il generale Carlo Jean, nei manuali
di strategia adottati dall’università Luiss di Confindustria, non c’è
differenza: i civili sono usati come strumento militare e non può essere fatta
distinzione.
È vero che
con le “nuove guerre” diventa sempre più difficile fare la distinzione. C’è un
aspetto radicale nella tradizione della cosiddetta “guerra giusta” che spesso
non viene apprezzato. Solo se si può fare questa distinzione e rispettare
questi criteri, si può entrare o restare in una situazione bellica. Se no,
bisogna lasciarsi invadere e occupare, o bisogna fare le valigie e tornare a
casa, come in Vietnam gli statunitensi, che non riuscivano più a distinguere i
guerriglieri vietcong dalla popolazione civile, e non potettero più lottare in
modo eticamente accettabile. Così, credo che anche chi interviene a difesa di
una popolazione crocefissa dalla violenza deve tenere in considerazione la dura
e ferrea logica della tradizione morale. Se non si può fare la guerra senza
poter limitare la violenza, allora bisogna ritirarsi dalla guerra, anche se dovessero
succedere poi dei massacri orribili: il militare e il politico non deve mai
pensare di essere l’ultimo salvatore del mondo. Ci sono dei cristiani realisti
che non accettano questo limite, e credono che il “giusto” può permettersi di
difendersi o di proteggere l’innocente con qualsiasi mezzo a disposizione, e
senza nessuna regola che lo limita e che lo obbliga a “lottare con una mano
legata dietro la schiena”. Ma la tradizione cattolica ci offre solo due
alternative: o quella di “comportarsi da gentleman in una rissa”
rispettando le regole anche quando tutti gli altri le ignorano, o di abbassare
le armi.
Come si
può osservare, questi criteri avvicinano la tradizione della “guerra giusta” al
pacifismo, perché è abbastanza difficile osservarli, e perciò, quando li
intendiamo bene, essi servono per dissuaderci dall’idea di entrare o restare in
guerra, piuttosto che per incoraggiarci e per razionalizzare le nostre tendenze
violente. Sappiamo, però, che la tradizione è stata strumentalizzata e continua
ad esserlo, e per questo tanti guardano a tale tradizione con cinismo. Ma nella
maggioranza delle guerre reali della storia umana, tale teoria si converte in
pacifismo, e anzi, in una dura condanna, poiché appena applicati bene tali
criteri smascherano l’incoerenza o la malvagità di chi si è messo in questa o
quella guerra, dicendo a tutti che il suo atto era “giusto”.
Oggi,
nelle pubblicazioni in lingua inglese, e nei lavori del Consiglio ecumenico delle Chiese, si parla piuttosto di una
dottrina della “pace giusta”. Noi cristiani siamo per la pace, e solo la pace è
“giusta”. Ma come essere sicuri di istaurare una pace nella quale, fuori dal
nostro piccolo recinto, le persone innocenti non soffrano violenze e soprusi,
una pace veramente “giusta”? Dal tentativo di giustificare la guerra si passa
quindi a cercare di capire come rendere giusta per tutti la pace, cioè come
realizzare le soluzioni pacifiche e diplomatiche, individuando dei criteri che
possano proporre al mondo un futuro di pace, e riconoscendo che la realtà umana
rimane segnata dal peccato e non può completamente escludere la realtà del
conflitto e della guerra. Tutto ciò si fonda su una speranza, non su un ingenuo
ottimismo. Da un lato ci sono stati dei progressi: rispetto alle guerre del XX
secolo, perlomeno, le grandi nazioni oggi non entrano facilmente in guerra fra
di loro. Dal punto di vista della legge internazionale, qualsiasi guerra di
aggressione non è accettabile: la legge non è tutto, ma stabilire ciò è stato
un grande passo in avanti.
Dall’altro
lato, osserviamo che molte guerre oggi sono associate a forme di criminalità.
Le guerre civili fondate su basi ideologiche sono sempre di meno. Se guardiamo
i Paesi dell’Africa occidentale, ad esempio, osserviamo che, malgrado tutto,
c’è stata in questi ultimi decenni una netta transizione verso la democrazia,
anche se si tratta di forme fragili e imperfette di democrazia. La vera
questione oggi è organizzarsi come comunità umana per aiutare i Paesi deboli a
risolvere dei conflitti interni, specialmente nelle zone ricche di materie
prime dove l’instabilità offre l’opportunità perfetta ad alcuni per estrarre e
rubare queste risorse, usando la popolazione locale come schiavi, commettendo
impunemente dei disastri ambientali, e mantenendo uno stato di guerra per
decenni, usando armi low cost per
massimizzare i profitti dell’estrazione. Alcuni autori come Paul Collier
propongono di stabilire uno standard comune per garantire ovunque delle
elezioni libere e trasparenti, e poi occorre far presente ai governi eletti
legittimamente (cioè, eletti secondo questo standard) che mentre dura il loro
mandato, se si facesse un colpo di Stato contro di loro, o se scoppiasse una
guerra civile per toglierli dal potere, le autorità regionali o l’intera
comunità internazionale interverranno per proteggerli. Quelli invece che non
sono eletti legittimamente non riceveranno nessun aiuto quando vengono minacciati.
Non so se può funzionare e se si può giustificare una politica del genere, che
fa ricordare la Santa Alleanza del 1815, alla quale si aggiunge però l’elemento
della legittimità democratica moderna. Tuttavia, l’idea che la sovranità delle
nazioni può essere rispettata, e la pace tutelata, integrandovi un sistema di
“vigilanza giusta” mondiale, è interessante, se restiamo attenti per non cadere
di nuovo nel paternalismo coloniale.
Credo che
la comunità internazionale possa efficacemente tutelare le minoranze etniche,
usando la diplomazia e anche la forza (e non solo quella militare) contro quei
governi che commettono delle violenze contro le minoranze nei loro Paesi o
tollerano tali violenze. Il problema è che la comunità internazionale è
frammentata, non si riesce a vietare la vendita di armi, o impedire il sostegno
ai dittatori. Tuttavia bisogna avere speranza che tale obiettivo sarà
raggiunto. Questo non vuol dire avere un governo mondiale ma una comunità
internazionale più forte. Penso che molti dei conflitti attuali e futuri vadano
pensati e combattuti come azioni per contrastare la criminalità organizzata e
il comportamento criminale di alcuni governi locali e nazionali. Secondo alcuni
autori, in questo contesto, va effettuata una “vigilanza giusta” ad esempio
attraverso la tecnologia, utilizzando dei mezzi di coercizione in modo non
letale. Esistono già dei droni che possono accecare temporaneamente i
combattenti o gli aggressori, fermando così il conflitto o riducendo il rischio
per le forze dell’ordine se dovessero intervenire in tali circostanze.
Dato che
la guerra sta diventando sempre più creativa e flessibile, anche noi sul fronte
della pace possiamo usare la creatività. Infatti, tutto il movimento della
nonviolenza è basato sulla creatività. Così come si può utilizzare la
creatività per torturare e per uccidere, allo stesso tempo si può usare la
creatività per realizzare la pace. A volte, però, ci fossilizziamo su una
nostra forma mentis che non ci lascia uscire dai vecchi schemi.
Recentemente, ho letto un libro dell’attivista serbo Srđa Popović,
in cui si dimostra come usare una delle armi più potenti dei nonviolenti:
il sorriso, cioè l’effetto comico. I
mercanti della guerra seducono la gente e le fanno paura, mantenendo sempre
l’apparenza dell’ordine, della disciplina e della serietà. È proprio quando
riusciamo a dimostrare quanto è ridicola la logica della violenza, e quanto
sono grottesche le persone che vivono di essa, che il sogno della pace passa da
folle utopia ad essere uno dei progetti più seri che possa realizzare
l’umanità.
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