A ridosso
del 25 aprile 2017 Francesco ha annunciato di andare in visita sui luoghi di due
preti dalla vita difficile.
L’iconografia della Liberazione è prodiga di
cannoni, fucili e mitragliatori esibiti nelle marce vittoriose tra la popolazione
civile festante del ‘45. Medesime scene con l’arrivo delle truppe alleate che
pure appartenevano a quello stesso esercito che bombardò le città senza pietà,
anche in assenza di un motivo reale se non la generazione strategica del terrore
aereo.
Su tutto prevalse la fine dell’incubo della guerra e di un regime inumano
generato nel cuore dell’Europa civile e cristiana. Una guerra giusta, quindi. Orribile
ma necessaria.
Il messaggio che resta è questo nella sostanza e serve a
giustificare l’intervento della forza in tutti i casi dove tale paragone è tuttora invocato. Eppure resta
omessa una domanda lacerante e aperta.
Come è stato possibile per un popolo
come quello italiano o tedesco obbedire nella quasi totalità ad un potere così
iniquo e malvagio? L’obiezione alla guerra si esercitò in maniera molto più
estesa nel primo conflitto mondiale, quando ancora era vivo l’orizzonte
internazionalista dei socialisti e degli anarchici e la fisiologica refrattarietà
dei cattolici, tra l’altro ancora legati alla convinzione di trovarsi, in
Italia, davanti ad un governo illegittimo.
La dura repressione militare in
trincea, fino alle fucilazioni sul posto, e il ruolo del clero che in larga
parte giustificava la guerra, nonostante l’inutile strage condannata da papa
Benedetto XV, con il dovere dell’obbedienza ai superiori, ha consegnato intere
generazioni all’uso industriale della violenza.
Qui sono stati gettati i semi
dei fenomeni totalitari e delle loro liturgie pagane.
I cattolici pretendevano
di poter “uccidere senza odio” come mostra un recente studio di Francesco Piva sull’educazione
nell’associazionismo ecclesiale di quel periodo. La stessa giustificazione esibita
dai partigiani cattolici che si definivano “ribelli per amore”. Ma questi erano,
appunto, “ribelli” verso un ordine ingiusto. Come scriveva il più famoso tra di
essi, Teresio Olivelli, “mai fummo così liberi quando trovammo la forza di
ribellarci”. Olivelli, nato nel 1916, era un giovane intellettuale che aveva
coltivato l’illusione di poter cristianizzare il fascismo fino a teorizzare una
lettura della dottrina razziale in senso universalistico.
Nato e cresciuto nel
pieno del regime, non aveva sentito parlare del giovane e indomito cattolico Pier
Giorgio Frassati che i fascisti li prendeva a pugni e fu l’unico a salutare
sulla frontiera l’esule Giuseppe Donati, il coraggioso direttore de Il Popolo,
vero solitario giornalista d’inchiesta e di accusa verso i gerarchi fascisti mandanti
e autori dell’omicidio di don Minzoni (1923) e di Giacomo Matteotti (1924).
Donati e
Mazzolari provenivano entrambi dalla Lega democratica nazionale, il primo
partito fortemente laico dei cattolici italiani, e anche interventisti nella
Grande Guerra con la motivazione di combattere l’ottuso militarismo prussiano e
imperiale.
È sul campo di battaglia che il giovane prete Mazzolari, oltre le
costruzioni teoriche, matura la sua obiezione radicale alla guerra che gli
procurerà sempre forti contrasti nella società e nella sua stessa Chiesa. Alla
fine nel 1941, nella lettera ad un giovane aviatore, già ex suo allievo, che lo
interpellò direttamente, giunse a formulare il “dovere della rivolta” contro “l’obbedienza
indiscriminata e quindi pagana”. Alla guerra fascista si deve disobbedire.
Così
nel 1965, 25 anni dopo, don Milani nell’autodifesa davanti ai giudici per
apologia di reato (l’obiezione di coscienza) giunge a formulare un concetto che resta come
un fuoco sempre pronto a divampare quando si raggiunge «il coraggio di dire ai giovani che essi sono
tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più
subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti
agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico
responsabile di tutto».
Milani, condannato
dai suoi superiori a vivere isolato in montagna, nella lettera ai cappellani
militari, che mandò a tutta la stampa cattolica che la censurò senza pubblicarla,
offre una ricostruzione della storia patria che demolisce la retorica comune e
le sue menzogne. Affermava «mi accusano
di aver mancato di rispetto ai caduti. Non è vero. Ho rispetto per quelle
infelici vittime. Proprio per questa mi parrebbe di offenderli se lodassi chi
le ha mandate a morire e poi si è messo in salvo. Per esempio quel re che
scappò a Brindisi con Badoglio e molti generali e nella fretta si dimenticò
perfino di lasciar gli ordini.
Del resto il
rispetto per i morti non può farmi dimenticare i miei figlioli vivi. Io non
voglio che essi facciano quella tragica fine. Se un giorno sapranno offrire la
loro vita in sacrificio ne sarò orgoglioso, ma che sia per la causa di Dio e
dei poveri, non per il signor Savoia o il signor Krupp».
Francesco
non ha usato parole meno chiare quando nel 2014 è andato al sacrario militaredi Redipuglia, eretto dal regime come orribile monumento alla morte in guerra al
grido “a me che importa?”.
Un discorso molto duro ed esplicito sulla menzogna
della guerra che ha compreso molto bene il liberale Arturo Diaconale, attuale
consigliere di amministrazione della Rai, che ha rivendicato la giustizia di
quel conflitto e di quelle vittime: «Stupisce che nessuno abbia osato rilevare
che per seguire fino in fondo l'indicazione del Papa bisognerebbe salire
sull'Altare della Patria e smantellare la tomba del Milite Ignoto
derubricandola a simbolo della guerra «inutile strage». Ma stupisce ancora di
più che nessuno si renda conto che non si può chiedere ad un popolo di
compattarsi e di compiere sacrifici contro la crisi se la sua identità viene
cancellata ed i sacrifici del passato bollati come vani».
Roberta Pinotti, ministro
della Difesa, ha invece offerto a Francesco un altarino da campo usato dai
cappellani militari durante quel mattatoio dove sappiamo che sui diversi fronti
i preti usavano l’icona del “sacro cuore di Gesù” per invocare la vittoria del
proprio esercito e quindi l’uccisione dei fratelli.
Per prendere
quindi sul serio il gesto del papa oggi, bisogna chiedersi: perché nel 2003 non
è stata lanciata una campagna di disobbedienza verso gli ordini di Bush davanti ad una guerra in Iraq piena di bugie, mossa da intollerabili interessi
economici e tale da sconvolgere un’area strategica
fino a farne l’incubatore della guerra mondiale a pezzi?
Il silenzio e l’assuefazione
del 2003 non è causa diretta dell’assopimento generale delle coscienza
collettiva davanti allo scempio compiuto in Libia nel 2011 e le manovre occulte
che hanno scatenato l’inferno in Siria?
Oggi davanti
alle pretese di Trump e di tutti gli altri attori che tirano le fila di una
scelta irreversibile di guerra senza ritorno, non è venuto il tempo di esercitare, come
espressione di una fraternità reale, il “dovere della rivolta”?
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