Ho cercato di capire dal dottor Nuccio Guaita le radici della cultura resistente alla guerra. Lucidità e capacità di rendere ragione sono un bel dono.
Medico e politico, il dottor Guaita fa parte di un gruppo di lavoro,
circa 20 persone, sulla Storia della medicina, coltivando grande attenzione
alla letteratura. Ha scritto ultimamente delle “madri del deserto”, molte meno
note dei “padri”, che appartengono agli inizi del Cristianesimo. Collabora con
il Settimanale diocesano che non è un bollettino interno ma un significativo e
interessante valore editoriale.
Una
bella storia la tua, caro “zio Nuccio”. Quando sei nato?
Sono del 1928 e quindi ho superato la soglia dei 90
anni.
Che
formazione hai ricevuto?
Ho iniziato a seguire il cammino formativo dell’Azione
cattolica quando ancora c’era Pio XI. Un
periodo di forte tensione morale tra Regime e Chiesa che poi si è consolidata
negli anni successivi. L’associazione è cresciuta molto bene durante il periodo
del secondo conflitto mondiale. La nostra città era stremata perché era esposta
come obiettivo militare. Era infatti il capoluogo di una zona industriale e
mineraria importante. In generale, a mio giudizio quel percorso di laici
cristiani è stato il frutto di una felice intuizione di impegno fecondo e più maturo,
più rispondente ai tempi nella “collaborazione dei laici all’apostolato
gerarchico della Chiesa”. In effetti, non è mai stata l’Azione cattolica, come
pure è stato ingiustamente detto, “una cinghia di trasmissione” del clero.
Eravamo, questo sì, molto amati dalla Chiesa, con un affetto che non intravedo
oggi nel rapporto con i nuovi movimenti d’impegno cristiano nella società,
visti, in fondo, sempre con qualche riserva.
Si
tratta di realtà recenti, giunte, alcune, ad una fase di verifica interna…
Lo so, leggo gli articoli di Luigino Bruni su
Avvenire a proposito della crisi di quelle che egli chiama “organizzazioni a
movente ideale” e devo dire che considero come espressione di maturità
l’emergere di una serena e aperta autocritica. Davvero una cosa bella! Un segno
di libertà in una società che non crede ormai alla politica ma vede un numero
crescente di persone assoggettate a qualche idea in maniera del tutto priva di
autocritica.
Io ho militato in un partito e so bene che ciò non
vuol dire essere acefali, ma oggi pare che non esista davvero la testa, non c’è
un pensiero, tanto meno critico; quando c’è, è …astensionista.
Venivate
da una storia complessa, fatta di prese di posizione critiche all’interno di un
mondo associativo che ha visto il passaggio da un certo trionfalismo alla
scelta più radicale e intensa. Ho saputo, ad esempio, che Iglesias ha avuto anche
una delle prime comunità di Charles De Foucauld…
Venne qui da noi, con i “Piccoli Fratelli”, fratel
Renè Voillaume, il successore di De Foucauld. Si stabilirono nella zona operaia
di Bindua per condividere in tutto la condizione dei minatori.
La presenza della fraternità di Charles de Foucauld
a Iglesias risale agli anni ’60: Carlo Carretto, Arturo Paoli e Gerard Fabert.
Quest’ultimo apparteneva ad una ricca famiglia francese che ormai lo aveva dato
per perso dopo la sua decisione di ritirarsi nel deserto. Poi, tramite un mio
collega, gli fece arrivare degli aiuti per la comunità qui in Sardegna.
Che
facevano qui da voi?
Lavorano in miniera. Gerard era un minatore ed è
sepolto ad Iglesias nella frazione di Bindua, in direzione Carbonia,nella chiesa
dei minatori di san Severino. I “fratelli”
erano tutti sacerdoti e sono stati di grande e commovente esempio perché
scelsero di condividere la vita delle famiglie in un rione povero e dignitoso. Ovviamente Paoli non aveva
certo perso la sua grinta di critico nei confronti della scelte ecclesiali del
tempo. Non c’è cittadino che non li ricordi con affetto,i “Piccoli Fratelli”,
come persone povere tra i poveri, che partecipavano attivamente alle azioni
sindacali mantenendo una vita contemplativa. Nella loro casa si trovava una
cappellina che anche io ho frequentato. Così come ho avuto la gioia della loro
presenza nella mia famiglia. La loro esperienza è durata circa 15 anni, a
cavallo degli anni ’60 ed è terminata con la chiusura delle miniere.
Erano
quindi preti operai?
Così venivano chiamati ed erano inseriti pienamente
nella società iglesiente ma la definizione era impropria, erano una comunità
spirituale pienamente inserita nella realtà locale e del lavoro manuale.
Arrivarono quando era vescovo monsignor Pirastru, una personalità imponente,
anche fisicamente, di grande pietà, per
40 anni alla guida della diocesi. Un vero pastore che aprì loro le porte, chiuse,
invece, in altre sedi. A volte accadono cose inattese.
Si
trattava sempre di esperienze radicali che venivano dalla Francia, dalla
“figlia prediletta della Chiesa”. Presumo che tu abbia letto i grandi autori di
quel periodo da Mounier a Maritain?
Una straordinaria ricchezza culturale che in Italia
non abbiamo avuto, eccetto, credo, la figura di Giuseppe Dossetti e dei
“professorini”, attivissimi nei lavori della Costituente italiana e che a noi è
arrivata soprattutto tramite papa Montini. Eppure devo dire che anche dopo il
Concilio Vaticano II non si è giunti ad un pieno riconoscimento della
importanza del laicato nella vita della Chiesa. A volte mi sembra cooptato
dalla struttura ecclesiale. Ad esempio non capisco perché le Caritas non siano
affidate ai laici, come avviene, invece, grazie al Vescovo e Collaboratori,
oggi ad Iglesias, sia alla Caritas, al Periodico Sulcisiglesienteoggi,
all’Archivio storico diocesano e al Museo diocesano, affidati appunto a laici e
laiche. Una più pronta disponibilità dei laici e una più aperta fiducia, su
provate capacità dei laici, da parte del Ministero ordinato, risponderebbe
meglio, a parer mio, anche ai compiti propri dell’Evangelizzazione del nostro
tempo.
Ricordi
senz’altro quello che denunciava Igino Giordani sulla proletarizzazione dei
laici nella Chiesa, ma è anche vero che in ogni struttura si creano rapporti di
gerarchia basati su una ciò che è sacro e quello che non è. In questo senso
come hai vissuto il tuo impegno politico in un partito formalmente cristiano
dalle tante fazioni e conflitti ma autonomo dalla Chiesa?
Devo dirti che come presidente della gioventù cattolica
ho avuto spesso incontri con il vescovo e il suo vicario, ma anche in quella
veste ho avuto dimostrazione di un sereno rispetto della autonomia laicale
anche perché la generazione dell’azione cattolica precedente alla mia è stata esemplare. Penso alla decisa
opposizione al fascismo.
In
che senso?
I dirigenti dell’epoca furono messi in prigione dopo
che le squadracce della milizia giunsero a fare razzia della sede della Giac
che si trovava al pian terreno del palazzo episcopale. Ho conosciuto alcuni di quei “ragazzi” che
subirono il carcere per la semplice militanza come cattolici organizzati.
Questo
avvenne ovviamente prima del ‘29?
Precisamente tra il 1927 e il 1928.
Posso
immaginare che il Concordato sia stato un trauma per quei giovani. Il
popolarismo era diffuso ad Iglesias?
Esisteva quella cultura. Ho scoperto, ad esempio, consultando
gli archivi diocesani che gli iscritti dell’Azione cattolica di un paesino qui
vicino, Masainas, erano tutti antifascisti dichiarati con manifestazioni e
scontri aperti
Poi
si è tutto normalizzato però..
Questo è
vero, a tutti i livelli, salvo poche eccezioni, come verificato dalle nostre e
successive generazioni. Credo che abbia prevalso la tendenza “morale” a
riconoscere il rispetto dell’autorità costituita. Ricordo che il fratello di
mia madre, zio Salvatore Obino, parroco a Bosa, nel nuorese, ebbe dei fastidi
perchè era rimasto anche pubblicamente antifascista, non curandosi di apparire
provocatorio, ostentando le pagine dell’Osservatore Romano non gradite al
regime. Una persona colta, grande dantista. Il vescovo lo richiamò più volte,
alla…prudenza, per le sue prediche, dietro istanza del Pnf locale.
Di
questa opposizione sommersa ho parlato a suo tempo con Zaccaria Negroni,
alias Ambrogio Campanaro, che fece
circolare con il Vittorioso, periodico dei ragazzi di AC, il testo italiano dell’enciclica di condanna del
nazismo ( la Mit brenneder Sorge del
1937). Hai memoria della circolazione degli scritti di Mazzolari, altro
oppositore al fascismo?
All’epoca non so dirti ma nei primi anni del dopo
guerra, liceali e matricole universitarie, fondammo un “Centro di formazione
politico sociale” dove leggevamo, tra gli altri, “Adesso”, la rivista promossa
da don Mazzolari, ma ci arrivavano diverse pubblicazioni culturali e avevamo
organizzato una bella biblioteca. Eravamo un sorta di cenacolo, consapevole di
doversi preparare all’impegno politico. Mi ricordo una discussione pubblica con
il rappresentante del partito sardo d’azione e quello comunista dove fui
invitato a partecipare come “esponente dell’azione cattolica”, non avendo
ancora qualifica politica pubblica. Insomma arrivammo preparati alla
partecipazione politica diretta.
E
questo già negli anni del liceo?
Proprio così. Mi ricordo il professore di lettere
dell’anno scolastico 45-46,prof. Giuseppe Tocco,segretario del partito
socialista e poi deputato nazionale, con esperienza partigiana in Toscana. Era
per la classe uno stimolo continuo alla discussione e al confronto perché
arrivava con un fascio di giornali che invitava a commentare. Una volta che
aveva saputo dell’esistenza del nostro circolo di cattolici attenti alla
questione sociale ci disse: “voi avete l’obbligo dell’impegno politico”.
Eravamo rispettati, anche se il conflitto era aperto e si andava a staccare i
manifesti gli uni degli altri.
Un
percorso che ti ha portato, poi, a candidarti, nel 1974, anche al Consiglio
regionale …
Per sostenermi venne, ad Iglesias, addirittura Aldo
Moro, data la comune appartenenza alla cultura sociale cristiana democraticamente
“aperta”. La piazza era gremita, c’era molta polizia e un gruppo di extraparlamentari
di sinistra che facevano un grande chiasso. Nessuno riuscì a sentire il mio
discorso introduttivo, anche per il tono basso della mia voce, ma Moro fece un
intervento di così alto livello e spessore politico culturale che tutti smisero
di agitarsi per ascoltarlo meglio. Parlò per oltre un’ora in un silenzio
irreale tra una folla piena di persone venute apposta per boicottare
l’iniziativa. Alla fine mi chiese di accompagnarlo, allontanando la folta
scorta, per andare ad incontrare i contestatori chiedendo le ragioni del
dissenso. Gli chiese “Non vi interessa capire le ragioni degli altri?” e gli
strinse la mano.
Mi
sembra l’esempio di ciò che Moro diceva e cioè che i cristiani vivono il “principio
di non appagamento”, refrattari cioè a considerarsi pienamente espressi in
alcuna forma politica perché proiettai sempre oltre…
Il suo pensiero: bisognava prendere appunti quando
parlava, come la sua prassi erano quelli di un uomo leale e aperto. Non ha
cercato di circuire i comunisti, come fecero altri con i socialisti. Moro
diceva semplicemente che i comunisti dovevano sperimentare il governo con
reciproco rispetto e riconoscimento perché rappresentavano una larga parte
della popolazione e dimostravano buona amministrazione di Città e Province. Puoi
immaginare la reazione degli altri “amici” di un partito dove egli rappresentava
una minoranza. In un congresso, mi ricordo che disse: “andiamo bene, abbiamo il
9%!”. E questo va a merito della Dc dove anche le minoranze avevano un peso.
Ovviamente, conoscendo quel partito dal di dentro, sono consapevole delle sue tante
inadempienze e infedeltà ma oggi sembra che non ci sia mai stata una presenza
del cattolicesimo sociale chiamato in tempi non lontani a rimettere in piedi un
Paese stremato dalla dittatura e dalla guerra.
Insomma
eri anche tu minoranza nella DC..
La maggioranza in Sardegna era dei dorotei (corrente
moderata del partito,ndr), gente di specchiata onestà ma distante dalla
sensibilità del cattolicesimo sociale e anche dalla grinta che questo assumeva
nella corrente di Amintore Fanfani. Conobbi il famoso politico aretino quando ero
consigliere regionale della Commissione di inchiesta sui fenomeni di
criminalità rurale, diffusi allora nelle zone interne.. Fanfani, allora
ministro degli interni, ci incontrò ad Orgosolo, città segnata dalle angherie
del banditismo sardo, e colpì tutti perché non propose di incrementare
l’organico della polizia, ma condusse con sé… i monaci camaldolesi(!?).
Con
quale motivazione?
Disse che la malavita andava recuperata tramite la
dignità e il lavoro. In effetti i monaci, che venivano dal Casentino,
promossero, per un certo periodo, l’apertura di diverse attività agricole e
fattorie.
Si
dice che Fanfani avesse una concezione forte, quasi leninista, del
partito….
Lo stimavo ma non mi convincevano i suoi modi
imperiosi di esercitare il potere, anche se poi ha pagato politicamente il
rapporto con le gerarchie ecclesiastiche che lo spinsero a promuovere lo
scontro del referendum sul divorzio nel 1974. Stento a credere ad una scelta
del genere in una persona di così solida cultura.
Torniamo
ai rapporti tra Chiesa e politica ….
In questo senso bisogna fare un salto indietro e al
legame tra papa Pacelli e Luigi Gedda, artefice dei Comitati civici che
sostennero la vittoria della Dc nel 1948 in chiave anticomunista. Avendo
vissuto da vicino quel periodo sono convinto che le cose sarebbero andate molto
diversamente senza questo forte impegno diretto, politico in senso stretto,
della Chiesa. Iglesias, ad esempio, era la culla del socialismo in Sardegna e
da qui si palesava l’attesa di una schiacciante vittoria della lista Garibaldi
a livello nazionale.
Quella
vittoria alimentò, tuttavia, l’idea errata di una egemonia culturale della Dc
nella società italiana, dove si celebravano le oceaniche marce dei berretti
verdi che distinguevano i giovani cattolici. Un trionfalismo esteriore a cui
reagirono Carretto, Paoli e altri con la riscoperta del radicalismo evangelico
del deserto
Ho letto recentemente un intervento su “Il Regno”,
rivista autorevole del mondo cattolico,che vedeva quella fase come l’occasione
storica perduta per i cattolici di staccarsi definitivamente dalla tradizione del
conservatorismo. Non mi sembra una ricostruzione accettabile di quel periodo
perché il dibattito era vivo e diffuso. E la rivista ha pubblicato il mio
parere, nettamente contrario. Da parte mia, ad esempio, manifestai anche per
lettera il dissenso per la rimozione, nel 1952, di Carlo Carretto e poi di
Rossi da responsabile centrale della GIAC. Non bastano le fonti scritte, senza la verifica di una
testimonianza di chi ha vissuto direttamente quelle vicende.
Insomma
consideri l’operazione Gedda del 48 come una questione di emergenza che non
implicava l’uniformità tra i cattolici. Da politico hai vissuto come esponente
di minoranza in un comune “rosso” come quello di Iglesias. Cosa significava in
concreto?
Mi sono candidato a consigliere comunale nel 1956 a
28 anni, diventando, infine,dopo 25 anni di “opposizione”, vicesindaco di tre
Sindaci socialisti, per 5 anni, nell’unica giunta di centrosinistra che si è
avuta ad Iglesias. Di solito la maggioranza apparteneva ai social comunisti con
la tradizione di avere comunque un sindaco socialista anche se la lista del Pci
era prevalente. Come puoi immaginare eravamo una forte minoranza che non poteva
coltivare troppi dissensi interni di fronte al potere prevalente altrui.
Prevaleva un senso di identità e difesa, anche se ovviamente conoscevamo le
debolezze della nostra parte.
Una
sinistra egemone quindi seguendo la lezione di Antonio Gramsci, grande
pensatore sardo….
Certo, a partire dall’occupazione degli spazi
culturali, in primis a livello regionale. Come dc abbiamo creduto di governare
l’Italia occupando i ruoli politici formali ma la sinistra ha abilmente e
largamente occupato i punti cruciali della cultura, a partire dall’Università e
dalle varie istituzioni anche periferiche di carattere storico culturale,
facendosi cioè presente e partecipe della vita della società.
Forse
questo era vero fino a poco tempo fa …
Oggi, in effetti, la situazione è poco decifrabile.
Personalmente, sono tra quelli che pensano alla perdita della cultura politica
come a un disvalore che lascia spazio alla ricerca pragmatica di un consenso
passeggero. Quando sento Salvini non ricordo più il significato che il porto ha
sempre avuto; quando leggo di Viganò svanisce il significato di modestia e
prudenza.
Che
assessorato hai assunto nella tua esperienza di amministratore regionale ?
Ai Lavori pubblici nel 1971 e al Turismo e
Spettacolo nel ‘73
Quindi
una cosa di rilievo. Puoi dire qualcosa in merito?
Erano i tempi ( 1971) in cui stava nascendo la Costa
Smeralda come polo di attrazione turistica con l’interesse dell’Aga Khan ed era chiara la tendenza per un piano di
cementificazione pesante del paesaggio. Ero per l’opposizione al piano
urbanistico promosso dai grandi gruppi delle aziende interessate. E ciò non faceva
piacere a larga parte del Consiglio. Bruno Vespa venne ad intervistarmi proprio
perché era ormai noto che l’assessore competente era contrario a quella
speculazione. Alla fine fui messo in minoranza e la cosa passò con
soddisfazione dei favorevoli dichiarati e di silenziosi di varia appartenenza.
La Rai non mandò mai in onda il mio dissenso politico.
Chi
erano gli imprenditori interessati?
Erano gruppi “settentrionali” e non, che non vennero
certo da me perché avevano “informato” i sindaci e altre istituzioni socio
politiche e non, schierati a favore del loro progetto. Armando Zucca del Psiup
capeggiava l’opposizione all’intervento edilizio che si rivelò, tra l’altro,non
molto nutrito in termini di creazione di benessere e posti di lavoro.
Anche
adesso vai sempre controcorrente con i tuoi interventi pubblici dove argomenti
l’opposizione alla fabbrica che produce bombe d’aereo destinate all’Arabia
saudita, utilizzate nella guerra in Yemen, e hai salutato come una conquista
l’unanimità del Consiglio comunale del 19 luglio 2017 che ha dichiarato
Iglesias città di pace. Come descriveresti la tua città a prescindere dai
soliti dati sulla crisi economia che l’attanaglia?
Come dici, i numeri sulla disoccupazione sono
pubblici e accertati nella loro drammaticità ma esiste una forte identità
politica, anche faziosa a volte. Una cultura radicata sulla presenza di un
solido sindacato che ha rappresentato l’unico vero argine verso il vasto
schieramento esistente a favore del padronato minerario che ha condizionato il
potere reale sulla città da metà dell’Ottocento fino agli anni 60 del 900. La
loro egemonia pressante si può cogliere facendo un giro al cimitero di Iglesias,
popolato dai monumenti funebri di quella classe dirigente di estrazione ligure
e piemontese. Non un monumento al Minatore. Esponenti di quei capitali che
sapevano bene come muoversi nel contesto della politica sabauda e
liberalrisorgimentale. Ci sarebbe da fare un’interessante inchiesta storica su
questo territorio e personalmente come parecchi altri, faccio lavoro di ricerca
negli Archivi. Ultimamente ho scritto del deputato e senatore Giuseppe
Cavallera (1873-1952) per un convegno di Storia della medicina( 2-3 maggio
2014, Cagliari), dato che l’esponente socialista era un medico dei poveri che
cominciò ad esercitare nell’isola di Carloforte dove organizzò anche le prime Leghe
dei battellieri e degli operai. Andò anche in carcere per la sua attività, agli
inizi del secolo scorso. Fu poi mandato dal fascismo al confino nel Lazio, nel
paesino di Anticoli Corrado.
Come
mai proprio Cavallera?
Mi ha sempre colpito l’impegno politico proprio del
medico Cavallera e ho quindi fatto opera di ricerca andando a conoscere i suoi
familiari, attingendo agli Archivi pubblici e della famiglia e di Cuneo, città dove fu mandato per essere
eletto deputato in una contesa aperta nel collegio dove dominava Giovanni
Giolitti. Allora il suo partito decideva direttamente anche perché assumeva i
sindacalisti come lui, con tanto di concorso pubblico.
Ma
tu lo hai anche conosciuto direttamente?
Non proprio. Lo andai a
sentire in un comizio quando Cavallera si presentò per il senato nel 1948 con
il Fronte popolare. Fu mio padre, fervente cattolico , ad invitarmi ad
ascoltare un personaggio di questo spessore perché, mi disse, “è una persona
che ha fatto del bene alla povera gente”. Lo aveva conosciuto e votato quando, da garzone
muratore, per ragioni di famiglia si imbarcò nell’isola di Carloforte per
andare a lavorare, da migrante, come bracciante
in Algeria.
In
Algeria ?
Era il primo di 8 figli
e a 16 anni mio nonno gli disse di andare a lavorare con lui imbarcandosi nei
barconi che facevano pesca di alto bordo. Raccoglievano corallo nelle isole tra
l’Algeria e la Tunisia. Tornato sull’ Isola divenne prima operaio e poi, per 36
anni, commesso di banca.
Guaita
è un cognome sardo?
Siamo liguri come
origine. Mio nonno veniva da Oneglia e da commerciante di olio, per ampliare le
proprie conoscenze arrivò a Cuglieri dove, si diceva, si producesse l’olio migliore della Sardegna.
Gli affari non andarono per il meglio e quindi cercò un altro lavoro, come ho
detto.
Il
tuo studio come il tuo impegno rivelano la traccia di una ricerca continua di
giustizia sociale e umana…
In questo senso una
persona per me molto importante è stato Giorgio La Pira, Lo andai a sentire a
Firenze dopo aver letto il suo libro su “L’attesa della povera gente” che mi
colpì fortemente e rimasi stupito da quest’uomo, piccolo, sempre in movimento,
che parlava con gesti rapidi. Vedeva lontano in maniera profetica.
Ed è la stessa
prospettiva che bisogna avere per comprendere il percorso avviato a favore
della pace e il lavoro anche qui a Iglesias.
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