Marco ha lavorato in un primo tempo come dipendete,
fattorino per una grande società. Ad un certo punto gli è stato detto che non
avrebbe perso nulla, anzi ci avrebbe guadagnato a mettersi in proprio. Sarebbe
diventato un piccolo padrone, senza perdere la divisa con il nome dell’azienda
che lo avrebbe anche aiutato a comprare il furgone, necessario per svolgere la
sua attività assicurata da un contratto di esclusiva. Si è poi reso conto che
tale rapporto stretto poteva durare al massimo 3 anni, dopo di chè poteva
essere libero di trovare migliore occasione e diversificare la sua attività. La
stessa libertà era concessa al suo ex datore di lavoro che, gli ha prima proposto
di ridursi il compenso, perché ormai
fuori mercato, e poi comunicato che, “purtroppo”, era costretto
a rivolgersi ad altri. Non lo ha licenziato: tecnicamente si è trattato della
disdetta di un contratto di fornitura. Marco non ha più lavorato. Ha venduto il
furgone per pagare le rate del mutuo e si è messo a fare, in nero, lavoretti da
giardiniere, ma un infortunio lo ha messo fuori gioco e ora non sa come fare.
Meno male che esiste il servizio sanitario nazionale e che la moglie ha un
impiego stabile altrimenti non saprebbe davvero come fare. Un ex collega di
Marco è riuscito a mantenere il furgone. Deve svegliarsi alle 3 per trasportare
latticini freschi per un grossista. Viene pagato in base al numero di consegne
che riesce a fare e il suo interlocutore è molto esigente anche se appare
bonario. Gli ha fatto capire che esiste un esercito di persone disposte a
sostituirlo.
Ultimi
e penultimi
Non sono racconti dell’orrore, ma storie comuni di
parte del mondo del lavoro dei nostri giorni. Esiste una separazione tra
posizioni ancora saldamente garantite, che permettono di costruire un futuro, e
aree dove non vale più, come alcuni fanno, la distinzione teorica tra gli
ultimi (i migranti che arrivano senza niente) e i penultimi (gli italiani delle
classi medio basse timorosi di precipitare verso il basso). La guerra, poi, che
si scatena tra poveri la vincono sempre i ricchi, come insegna la saggezza
popolare.
Eppure esistono sorprendenti segni di resistenza
come ha dimostrato Simone di Torre Maura, a Roma, l’adolescente che ha
affrontato un gruppo di teppisti intenzionati a far scaricare la rabbia di un
quartiere contro l’insediamento d’emergenza di alcune famiglie di rom. Le
istituzioni, ovviamente, sbagliano a riempire le periferie di problemi, come avviene
con la sistemazione d’urgenza dei senza casa. Ma Simone ha potuto dire che non
è la infima percentuale di rom a creare il problema, quanto l’abbandono del
territorio. Il padre, giustamente
orgoglioso, del giovane, come si è scoperto in seguito, è rientrato tra gli
oltre 1.600 lavoratori del call center di Almaviva, licenziati in tronco, nel
Natale 2016, per non aver accettato, al contrario dei colleghi di Napoli, la
riduzione del loro già modesto stipendio. Alla radice di queste vertenze
troviamo una accanita concorrenza nel campo dell’outsourcing. E cioè di quelle
attività non considerate centrali ( non solo il call center o la manutenzione)
dalle aziende e pertanto affidate a terzi con contratti dalla durata breve e a
costi sempre più ridotti che finiscono per scaricarsi inevitabilmente
sull’anello più debole della catena. In buona parte Almaviva è in questo
segmento di mercato dove non si riesce ad imporre un efficace divieto degli
appalti al massimo ribasso o la penalizzazione
per la delocalizzazione all’estero dove i costi sono molto più bassi (
“l’operatore risponde dall’Albania”). L’azienda, che si definisce il
quinto gruppo privato italiano per numero di occupati nel mondo ( 45 mila
persone di cui 34 mila all’estero), è ora al centro di altri 1.600
licenziamenti della sede di Palermo, causati ufficialmente dal taglio delle
commesse da parte di Wind Tre e Tim.
Che peso effettivo può avere il governo italiano
davanti a giganti economici come lo statunitense Fondo di investimento Elliot ( che ha scalzato la francese Vivendi dal controlo di Tim) o il più
ricco imprenditore cinese, Li Ka-Shing, che possiede Wind Tre? Per
l’esattezza la proprietà è riconducibile alla multinazionale CK Hutchison Holdings Limited che ha
sede a Hong Kong ma è registrata nel paradiso fiscale delle britanniche Isole
Cayman. Tim e Wind sono l’esisto estremo
della telefonia pubblica, esempio classico di una errata e frettolosa
privatizzazione. Così come Almaviva, fondata da un ex dirigente Ibm, ha
acquisito Finsiel, società leader a livello europeo nel settore informatico,
fino a quando era sotto il controllo pubblico ( Iri e Banca d’Italia).
Solo recentemente, anche grazie al contributo
dell’economista italo statunitense Mariana Mazzuccato, si è tornati a considerare
il ruolo centrale dello stato nell’indirizzare il corso dell’economia. Anche
perché si è potuto riscontrare che nelle altre nazioni il vero valore aggiunto
nel campo della ricerca e della tecnologia, quella che può assicurare qualità e
stabilità dei posti di lavoro, trova la sua origine negli investimenti
pubblici, dato che la tipologia prevalente dell’impresa privata, stressata
dalla competizione, è orientata alla rendita finanziaria nel breve periodo
piuttosto che ad investimenti di lungo periodo in settori strategici. Si pensi
alla dismissione della produzione di mezzi ferroviari.
Le conseguenze del declino dell’Italia risiedono nell’aver
perso grandi attori industriali in settori decisivi, chimica e informatica,
anche se ancora contende alla Francia il secondo posto, dopo la Germania, tra
le manifatture in Europa. Esiste un tessuto di piccole e medie aziende sane,
capaci di imporsi a livello internazionale, ma che non possono contare su
risorse indispensabili per la ricerca e l’innovazione.
Anche i vicini d’Oltralpe risentono da una certa
gestione della globalizzazione del lavoro. Nel film “In guerra” di Stéphane Brizé (2018) si palesa
l’impotenza dell’Eliseo, icona della grandeur
presidenziale, davanti alla proprietà tedesca di una società che chiude l’attività
perché non abbastanza redditiva, nonostante la qualità delle maestranze e le
ipotesi di subentro di altri imprenditori. Il finale tragico arriva
inesorabile, compresa la rottura interna tra i lavoratori e gli stessi sindacati.
La solitudine e l’impotenza del singolo davanti a
poteri prevalenti minano alle fondamenta lo stesso concetto di democrazia,
intesa come possibilità di un cambiamento possibile dal basso.
Democrazia
economica
Appare così difficile collegare ciò che avviene oggi
con la pretesa esplosa nel 1969 con l’Autunno caldo, l’inizio di un periodo di
forte protagonismo del mondo del lavoro animato da una tensione verso la
“democrazia economica” convinti che le stese libertà conquistate con la
Costituzione potessero entrare dentro le imprese, ancora legate a retaggi
servili. Una esigenza che si è poi realizzata in parte con la legge 300 del
1970 (lo Statuto dei lavoratori). Un periodo di forti tensioni. Con scioperi e
occupazioni, accompagnato ad una attesa
di mutamento radicale. Come ha riconosciuto Sergio Bologna, attento studioso di
quel periodo, una componente decisiva di quel movimento ha avuto origine
dall’umanesimo cristiano fondato sulla dignità dell’essere umano.
Per decenni è stato normale trovare, ad esempio, nei
manuali formativi di pastorale sociale
il riferimento alla “cogestione” come diritto di partecipazione dei lavoratori
alle scelte fondamentali delle imprese. Oggi
il riferimento più frequente alla partecipazione è quella, parziale, sugli
utili, concessa dalla “proprietà”illuminata come forme di incentivo.
Solo con l’esperienza crescente delle imprese
recuperate è ricomparsa la pretesa dei dipendenti di acquistare aziende in
crisi, destinate al fallimento o allo smembramento, per farle rivivere con una
gestione partecipata. Azioni che richiedono di non trovare ostacoli da parte
delle banche come propone il “Forum diseguaglianze diversità”, costituito da associazioni
di cittadinanza attiva, tra le quali la Caritas, e ricercatori che hanno
elaborato 15 proposte per la giustizia sociale. Tra queste l’introduzione del Consiglio del
lavoro come forma organizzativa, aperta alla cittadinanza, prevista in altri
Paesi avanzati, per rendere possibile «la partecipazione strategica di
lavoratori e lavoratrici alle decisioni delle imprese» su «localizzazione,
condizioni e organizzazione del lavoro, impatto delle innovazioni tecnologiche
su lavoro e retribuzioni» Una sfida
che, per essere davvero efficace, non può essere confinata dentro l’azienda ma
proiettarsi sulla società intera, altrimenti si rischia di difendere gli
interessi di alcuni contro altri, la salute contro il lavoro come avviene
all’Ilva di Taranto e in tanti siti inquinati. Bisogna avere una visione del
mondo per incidere e decidere “cosa, per chi e come produrre”. È su questa base
che alcuni operai hanno opposto negli anni ’80 il loro rifiuto alla produzione di armi destinate ai
Paesi in guerra, fino a far approvare una legge (la 185/90) rimasta costantemente
sotto attacco. È questa pretesa di cambiare il mondo che racchiude la cifra di
un epoca, difficile da comprendere per i più giovani. Nelle testimonianze
raccolte da Marco Revelli emerge che “l’autunno caldo” nella gigantesca
fabbrica della Fiat a Torino cominciò nell’aprile del 69 quando la massa
obbediente dei lavoratori immigrati del Sud lasciò, per la prima volta dal
1950, il posto per scioperare in solidarietà, tra Nord e Sud, contro la morte
degli operai uccisi durante una manifestazione a Salerno: «eravamo fratelli, ci
si voleva bene, eravamo uniti». Non fu qualcosa che avvenne all’improvviso, ma al
culmine di una lunga maturazione. Oggi si dibatte sui diritti dei riders ,fattorini in biciletta del cibo
a domicilio, messi in pericolo da meccanismi determinati da un algoritmo che
introduce il cottimo (più consegni e più guadagni), dall’aumento degli
infortuni mortali determinati dalla precarizzazione dell’attività, alle
pensioni misere che attendono i giovani adulti a reddito basso. Che risposta
emergerà dal nostro tempo?
Estratto inchiesta su Città Nuova ottobre 2019
Estratto inchiesta su Città Nuova ottobre 2019
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