giovedì 28 novembre 2019

La pretesa di cambiare il mondo, partendo dalla fabbrica




Marco ha lavorato in un primo tempo come dipendete, fattorino per una grande società. Ad un certo punto gli è stato detto che non avrebbe perso nulla, anzi ci avrebbe guadagnato a mettersi in proprio. Sarebbe diventato un piccolo padrone, senza perdere la divisa con il nome dell’azienda che lo avrebbe anche aiutato a comprare il furgone, necessario per svolgere la sua attività assicurata da un contratto di esclusiva. Si è poi reso conto che tale rapporto stretto poteva durare al massimo 3 anni, dopo di chè poteva essere libero di trovare migliore occasione e diversificare la sua attività. La stessa libertà era concessa al suo ex datore di lavoro che, gli ha prima proposto di ridursi  il compenso, perché ormai fuori mercato,  e  poi comunicato che, “purtroppo”, era costretto a rivolgersi ad altri. Non lo ha licenziato: tecnicamente si è trattato della disdetta di un contratto di fornitura. Marco non ha più lavorato. Ha venduto il furgone per pagare le rate del mutuo e si è messo a fare, in nero, lavoretti da giardiniere, ma un infortunio lo ha messo fuori gioco e ora non sa come fare. Meno male che esiste il servizio sanitario nazionale e che la moglie ha un impiego stabile altrimenti non saprebbe davvero come fare. Un ex collega di Marco è riuscito a mantenere il furgone. Deve svegliarsi alle 3 per trasportare latticini freschi per un grossista. Viene pagato in base al numero di consegne che riesce a fare e il suo interlocutore è molto esigente anche se appare bonario. Gli ha fatto capire che esiste un esercito di persone disposte a sostituirlo. 


Ultimi e penultimi
Non sono racconti dell’orrore, ma storie comuni di parte del mondo del lavoro dei nostri giorni. Esiste una separazione tra posizioni ancora saldamente garantite, che permettono di costruire un futuro, e aree dove non vale più, come alcuni fanno, la distinzione teorica tra gli ultimi (i migranti che arrivano senza niente) e i penultimi (gli italiani delle classi medio basse timorosi di precipitare verso il basso). La guerra, poi, che si scatena tra poveri la vincono sempre i ricchi, come insegna la saggezza popolare.
Eppure esistono sorprendenti segni di resistenza come ha dimostrato Simone di Torre Maura, a Roma, l’adolescente che ha affrontato un gruppo di teppisti intenzionati a far scaricare la rabbia di un quartiere contro l’insediamento d’emergenza di alcune famiglie di rom. Le istituzioni, ovviamente, sbagliano a riempire le periferie di problemi, come avviene con la sistemazione d’urgenza dei senza casa. Ma Simone ha potuto dire che non è la infima percentuale di rom a creare il problema, quanto l’abbandono del territorio.  Il padre, giustamente orgoglioso, del giovane, come si è scoperto in seguito, è rientrato tra gli oltre 1.600 lavoratori del call center di Almaviva, licenziati in tronco, nel Natale 2016, per non aver accettato, al contrario dei colleghi di Napoli, la riduzione del loro già modesto stipendio. Alla radice di queste vertenze troviamo una accanita concorrenza nel campo dell’outsourcing. E cioè di quelle attività non considerate centrali ( non solo il call center o la manutenzione) dalle aziende e pertanto affidate a terzi con contratti dalla durata breve e a costi sempre più ridotti che finiscono per scaricarsi inevitabilmente sull’anello più debole della catena. In buona parte Almaviva è in questo segmento di mercato dove non si riesce ad imporre un efficace divieto degli appalti al massimo ribasso  o la penalizzazione per la delocalizzazione all’estero dove i costi sono molto più bassi ( “l’operatore risponde dall’Albania”). L’azienda, che si definisce   il quinto gruppo privato italiano per numero di occupati nel mondo ( 45 mila persone di cui 34 mila all’estero), è ora al centro di altri 1.600 licenziamenti della sede di Palermo, causati ufficialmente dal taglio delle commesse da parte di Wind Tre e Tim.
Che peso effettivo può avere il governo italiano davanti a giganti economici come lo statunitense Fondo di investimento Elliot ( che ha scalzato la francese Vivendi dal controlo di Tim) o il più ricco imprenditore cinese,  Li Ka-Shing, che possiede Wind Tre? Per l’esattezza la proprietà è riconducibile alla multinazionale CK Hutchison Holdings Limited che ha sede a Hong Kong ma è registrata nel paradiso fiscale delle britanniche Isole Cayman.  Tim e Wind sono l’esisto estremo della telefonia pubblica, esempio classico di una errata e frettolosa privatizzazione. Così come Almaviva, fondata da un ex dirigente Ibm, ha acquisito Finsiel, società leader a livello europeo nel settore informatico, fino a quando era sotto il controllo pubblico ( Iri e Banca d’Italia).
Solo recentemente, anche grazie al contributo dell’economista italo statunitense Mariana Mazzuccato, si è tornati a considerare il ruolo centrale dello stato nell’indirizzare il corso dell’economia. Anche perché si è potuto riscontrare che nelle altre nazioni il vero valore aggiunto nel campo della ricerca e della tecnologia, quella che può assicurare qualità e stabilità dei posti di lavoro, trova la sua origine negli investimenti pubblici, dato che la tipologia prevalente dell’impresa privata, stressata dalla competizione, è orientata alla rendita finanziaria nel breve periodo piuttosto che ad investimenti di lungo periodo in settori strategici. Si pensi alla dismissione della produzione di mezzi ferroviari.



Le conseguenze del declino dell’Italia risiedono nell’aver perso grandi attori industriali in settori decisivi, chimica e informatica, anche se ancora contende alla Francia il secondo posto, dopo la Germania, tra le manifatture in Europa. Esiste un tessuto di piccole e medie aziende sane, capaci di imporsi a livello internazionale, ma che non possono contare su risorse indispensabili per la ricerca e l’innovazione.
Anche i vicini d’Oltralpe risentono da una certa gestione della globalizzazione del lavoro. Nel film “In guerra” di Stéphane Brizé (2018) si palesa l’impotenza dell’Eliseo, icona della grandeur presidenziale, davanti alla proprietà tedesca di una società che chiude l’attività perché non abbastanza redditiva, nonostante la qualità delle maestranze e le ipotesi di subentro di altri imprenditori. Il finale tragico arriva inesorabile, compresa la rottura interna tra i lavoratori e gli stessi sindacati.   
La solitudine e l’impotenza del singolo davanti a poteri prevalenti minano alle fondamenta lo stesso concetto di democrazia, intesa come possibilità di un cambiamento possibile dal basso. 


Democrazia economica
Appare così difficile collegare ciò che avviene oggi con la pretesa esplosa nel 1969 con l’Autunno caldo, l’inizio di un periodo di forte protagonismo del mondo del lavoro animato da una tensione verso la “democrazia economica” convinti che le stese libertà conquistate con la Costituzione potessero entrare dentro le imprese, ancora legate a retaggi servili. Una esigenza che si è poi realizzata in parte con la legge 300 del 1970 (lo Statuto dei lavoratori). Un periodo di forti tensioni. Con scioperi e occupazioni,  accompagnato ad una attesa di mutamento radicale. Come ha riconosciuto Sergio Bologna, attento studioso di quel periodo, una componente decisiva di quel movimento ha avuto origine dall’umanesimo cristiano fondato sulla dignità dell’essere umano. 
Per decenni è stato normale trovare, ad esempio, nei manuali  formativi di pastorale sociale il riferimento alla “cogestione” come diritto di partecipazione dei lavoratori alle scelte fondamentali delle imprese.  Oggi il riferimento più frequente alla partecipazione è quella, parziale, sugli utili, concessa dalla “proprietà”illuminata come forme di incentivo.
Solo con l’esperienza crescente delle imprese recuperate è ricomparsa la pretesa dei dipendenti di acquistare aziende in crisi, destinate al fallimento o allo smembramento, per farle rivivere con una gestione partecipata. Azioni che richiedono di non trovare ostacoli da parte delle banche come propone il “Forum diseguaglianze diversità”, costituito da associazioni di cittadinanza attiva, tra le quali la Caritas, e ricercatori che hanno elaborato 15 proposte per la giustizia sociale.  Tra queste l’introduzione del Consiglio del lavoro come forma organizzativa, aperta alla cittadinanza, prevista in altri Paesi avanzati, per rendere possibile «la partecipazione strategica di lavoratori e lavoratrici alle decisioni delle imprese» su «localizzazione, condizioni e organizzazione del lavoro, impatto delle innovazioni tecnologiche su lavoro e retribuzioni»    Una sfida che, per essere davvero efficace, non può essere confinata dentro l’azienda ma proiettarsi sulla società intera, altrimenti si rischia di difendere gli interessi di alcuni contro altri, la salute contro il lavoro come avviene all’Ilva di Taranto e in tanti siti inquinati. Bisogna avere una visione del mondo per incidere e decidere “cosa, per chi e come produrre”. È su questa base che alcuni operai hanno opposto negli anni ’80 il loro  rifiuto alla produzione di armi destinate ai Paesi in guerra, fino a far approvare una legge (la 185/90) rimasta costantemente sotto attacco. È questa pretesa di cambiare il mondo che racchiude la cifra di un epoca, difficile da comprendere per i più giovani. Nelle testimonianze raccolte da Marco Revelli emerge che “l’autunno caldo” nella gigantesca fabbrica della Fiat a Torino cominciò nell’aprile del 69 quando la massa obbediente dei lavoratori immigrati del Sud lasciò, per la prima volta dal 1950, il posto per scioperare in solidarietà, tra Nord e Sud, contro la morte degli operai uccisi durante una manifestazione a Salerno: «eravamo fratelli, ci si voleva bene, eravamo uniti». Non fu qualcosa che avvenne all’improvviso, ma al culmine di una lunga maturazione. Oggi si dibatte sui diritti dei riders ,fattorini in biciletta del cibo a domicilio, messi in pericolo da meccanismi determinati da un algoritmo che introduce il cottimo (più consegni e più guadagni), dall’aumento degli infortuni mortali determinati dalla precarizzazione dell’attività, alle pensioni misere che attendono i giovani adulti a reddito basso. Che risposta emergerà dal nostro tempo?  

Estratto inchiesta su Città Nuova ottobre 2019 

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