Ad un anno dalla scomparsa di David Sassoli è stato presentato a Roma il 9 gennaio, in un teatro Quirino affollato, un libro che raccoglie gran parte dei suoi ultimi intensi interventi.
Potrebbe essere un testo base per una scuola di politica esigente e concreta, capace di suscitare una giusta inquietudine verso scenari incerti.
Recandosi, ad esempio, nell’isola greca di Lesbo, ridotta ad un disumano campo di migranti e richiedenti asilo, Sassoli aveva colto la possibilità della fine del sogno europeo che si è realizzato nel secondo dopoguerra anche a partire dal Manifesto di Ventotene scritto su quell’isola pontina usata come reclusione dei prigionieri politici.
Lo ha ricordato nel suo appassionato intervento al Quirino Paolo Rumiz. Lo scrittore triestino, in stretto rapporto con l’allora presidente del Parlamento europeo, conosce molto bene quell’area orientale del Continente attraversata da una frattura sempre pronto a riaprirsi con il carico di contrastanti memorie e culture.
L’Europa si tiene assieme non per artificio burocratico ma grazie a donne e uomini che sanno fare da ponte e saltare le frontiere per costruire una narrazione comune radicalmente diversa dalle mitologie marziali dei blocchi contrapposti.
Tra le ultime urgenze confidategli da Sassoli, Rumiz ha sottolineato la necessità «di mettere più Europa nel nostro atlantismo». Una voce esplicitamente in controcanto quello dello scrittore posto accanto agli interventi più ufficiali di Enrico Letta, Ursula von Der Leyen e Romano Prodi. Quest’ultimo, ex presidente della Commissione Ue, ha affermato l’esigenza di uscire fuori dall’immobilismo che segna a volte l’Europa riconoscendo un ruolo trainante ai Paesi fondatori in grado di esprimere, pur sempre in amicizia con gli Usa, una linea di politica estera originale improntata a saggezza e capacità di arbitrato.
Segnali che vanno colti mettendoli in rapporto con un importante e denso intervento che papa Francesco ha compiuto nella stessa mattina del 9 gennaio. Rivolgendosi ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa sede ha ribadito, che «tutti i conflitti pongono comunque in rilevo le conseguenze letali di un continuo ricorso alla produzione di nuovi e sempre più sofisticati armamenti, talvolta giustificata, “adducendo il motivo che se una pace oggi è possibile, non può essere che la pace fondata sull’equilibrio delle forze” (citazione della Pacem in Terris, ndr). Occorre scardinare tale logica e procedere sulla via di un disarmo integrale, poiché nessuna pace è possibile laddove dilagano strumenti di morte».
Sappiamo che l’11 gennaio, incontrando in udienza privata Giorgia Meloni, il papa ha consegnato, tra l’altro, al presidente del consiglio un testo che raccoglie, sotto il titolo “Un’enciclica di pace per la guerra in Ucraina”, l’insieme degli interventi di Francesco sul devastante conflitto in corso nel cuore d’Europa.
Quello stesso giorno in Senato si è svolto il dibattito in assemblea per l’approvazione della conversione in legge del decreto-legge 2 dicembre 2022, n. 18 che prevede per tutto il 2023 la facoltà del governo di spedire armi alle forze armate ucraina mantenendo il segreto sulla qualità e quantità di materiale bellico che verrà inviato a Kiev. L’elenco resta conosciuto, ad ogni modo, dai parlamentari che fanno parte del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica presieduto dal dem Lorenzo Guerini, ex ministro della Difesa.
Il voto finale di palazzo Madama era scontato fin dall’inizio ( 125 a favore, 26 contrari e 2 astenuti) ma il dibattito, accessibile sul sito del Senato, è un segnale della lacerazione che, tranne posizioni di certezza ostentata da alcuni, attraversa la coscienza di ognuno davanti ad un conflitto che, a quasi un anno dal suo inizio, si va aggravando con il rischio di una pericolosa escalation nucleare come dibattuto giornalmente tra gli esperti di strategia militare.
Anche chi come il dem Graziano Delrio dichiara che non vorrebbe affrontare questo nodo che va contro tutta la propria impostazione culturale, ma conferma il voto favorevole all’invio di armi perché in tal modo «mettiamo l'Ucraina nelle condizioni di potersi difendere perché esiste un diritto all'autodifesa, sancito dagli organismi internazionali» pur ribadendo che resta indispensabile il coraggio politico di arrivare a degli accordi sapendo bene che questi costano «sempre fatica, dolore; appaiono un tradimento nei confronti di coloro che sono morti o che hanno combattuto».
Ivan Scalfarotto di Azione/Iv ripete la tesi prevalente che accomuna l’aggressività di Putin a quella di Hitler che con l’accordo di Monaco del 1938 trovò nell’arrendevolezza dei Paesi democratici il via libera ai suoi progetti egemonici. Per tale ragione sostiene la necessità di inviare a Kiev senza esitazione «il sistema di difesa antiaereo per proteggere quella popolazione dagli attacchi che sta subendo» seguendo l’esempio di «francesi e tedeschi che hanno cominciato a mandare armi e anche mezzi blindati».
Per il dem Enrico Borghi occorre capire che dal 24 febbraio 2022 è iniziata tra democrazia e autocrazia «una competizione per la leadership globale tra diversi modelli». Siamo cioè all’inizio di «un decennio di ridefinizione dei rapporti di forza globali, all'interno di quella realtà storica che lo studioso americano, Alec Ross, ha definito “i furiosi anni Venti”».
Dal fronte della maggioranza il senatore di FdI Barcaiuolo invita i suoi colleghi che «quando una Nazione si divide sulla politica estera, diventa meno credibile, diminuisce il suo potere contrattuale». A tal fine per definire la fedeltà all’Europa che segna la sua parte politica cita un brano di una canzone del 1977 della Compagnia dell’anello, noto gruppo musicale delle destra estrema, che contiene epici versi del tipo “Canto d' Europa la pace romana, pace di aratro e di spada. Canto del sangue offerto in suo onore da stirpi di ghiaccio e di sole”. Barcaiuolo si dice convinto che le diplomazie stiano operando in via discreta per arrivare ad un accordo tenendo bene a mente «che l'unica speranza per arrivare alla pace è quella di rendere sconveniente, a chi ha attaccato, di proseguire questo attacco, altrimenti non si fermerà mai».
La relatrice di maggioranza della legge, senatrice Stefania Craxi di Forza Italia, ha voluto precisare all’inizio del dibattito che «le cessioni di mezzi, materiali e armamenti avvengono a titolo non oneroso per la parte ricevente, ma, al pari di quelle realizzate dagli altri Stati membri, sono parzialmente rimborsate dall'Unione europea attraverso i fondi dello Strumento europeo per la pace». Non ci sono costi in più per gli stati che devono reintegrare le dotazioni di armi cedue all’Ucraina, ribadendo che «non si tratta di dividersi tra pacifisti e guerrafondai, ma di dirsi con chiarezza che la pace disarmata sta nel campo dell'ideale».
Il senatore di Forza Italia Paroli ha ribadito la nettezza della posizione dell’Italia «in sintonia con l'Unione europea e la NATO, che sono i nostri fari, la nostra comunità; la comunità dei nostri figli».
Per la Lega la senatrice Pucciarelli ha voluto sottolineare che «le risorse stanziate nell'ambito della Difesa sono investimenti. La Difesa, per quanto riguarda la propria industria, dà lavoro a circa 200.000 persone tra diretti e indiretti».
Matteo Perego di Cremnago, sottosegretario alla Difesa in quota Forza Italia, ha voluto precisare che «il governo agisce prima di tutto seguendo i dettami dell'articolo 51 della Carta dell'ONU, che sancisce il diritto naturale di autotutela, individuale o collettiva, nel caso un Paese sia aggredito».
Non si sono espresse in aula ma hanno preso, con la loro astensione, una posizione diversa dal proprio gruppo, le neo senatrici dem Camusso e Rando che provengono rispettivamente da Cgil e Libera. In più interventi sui media la Camusso si è espressa contro i vertici europei che parlano solo di soluzione bellica.
Il M5S hanno invece cambiato la posizione espressa durante il governo Draghi maturando una linea di opposizione all’invio di armi già condivisa dall’ alleanza Verdi Sinistra. La senatrice M5S Aurora Floridia ha contestato la linea del governo che «sulla scia di quello precedente, si sta limitando solo alle forniture militari. Non c'è traccia di alcuna reale azione diplomatica, di un cessate il fuoco, di un impegno concreto nel trovare una soluzione diversa dalla logica vincitori-vinti». Citando anche Andrea Riccardi e la coalizione civile di Europe for peace, Floridia ha affermato che «questa guerra incrementa i timori di una recessione, sottrae fondi alla riconversione ecologica» per favorire in sostanza l’industria bellica.
Secondo il senatore Marton, sempre del M5S, «non regge più la narrazione che, se non si cedono armi, si vuole la resa dell'Ucraina. Oggi è già il momento giusto per puntare sulla diplomazia ed evitare che la Federazione Russa possa decidere di imprimere una svolta al conflitto con armi nucleari. In questa guerra non ci saranno vincitori, ma ci saranno solo macerie e morti».
La discussione continuerà alla Camera il prossimo 23 gennaio con la speranza che, nel frattempo, si apra uno spiraglio di luce in mezzo alle notizie di ulteriori scontri e massacri. Un dibattito che chiede un coinvolgimento reale e attivo della società civile che non può farsi trovare impreparata o distratta davanti a scenari che possono mutare senza alcun preavviso.
Sarebbe infine da interrogarsi su cosa voler dire “mettere più Europa nel nostro atlantismo” a partire dal vertice Ue – Ucraina fissato a Kiev per il prossimo 3 febbraio.
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