Le luci del mondiale del Qatar hanno cancellato i volti dei lavoratori morti per costruire gli stadi? Era ragionevole sperare in un gesto finale capace di sfidare sanzioni e ritorsioni per rimettere al centro la grande questione rimossa che chiama in causa non solo il Paese organizzatore della manifestazione sportiva ma l’intero sistema del calcio internazionale. A questo era richiesto almeno di trovare 460 milioni di dollari per risarcire in qualche modo le famiglie colpite dalle conseguenze degli infortuni mortali.
Ogni vita umana, ovviamente, unica e irripetibile, non è materiale di consumo che può essere compensato in senso monetario, anche se le assicurazioni adottano algoritmi per valutare il “costo umano” di una persona. Si tratta, in questo caso, solo di venire incontro alle famiglie, per lo più delle fasce più povere dell’Asia, che hanno perso la fonte del loro sostentamento. I 440 milioni di dollari sono una stima proposta dalle organizzazioni umanitarie e che resta parametrata su un numero per difetto delle morti sul lavoro legate alle infrastrutture costruite nel deserto.
Una storia antica che si ripete con le migrazioni di massa attirate dalle grandi opere che assicurano un lavoro retribuito anche se prezzo della propria incolumità e dei diritti fondamentali che sono destinati a restare scritti sui trattati internazionali se nessuno si impone per farli rispettare.
La cifra richiesta è assai modesta se solo si considerano i 220 miliardi di dollari spesi dal Qatar in 10 anni per arrivare a far giocare, sovvertendo i calendari delle federazioni nazionali, i mondiali di calcio in questo Paese sempre più strategico nelle alleanze politiche internazionali.
Enormi risorse finanziarie sono alla base del patrimonio del Qatar Investment Authority, il Fondo sovrano del Qatar attivo in una pluralità di partecipazioni e attività economiche sparse nel mondo. Nel 2018 il Sole 24 ore, per citare una fonte attendibile, ne stimava un portafoglio in gestione per 320 miliardi di dollari.
Il presidente del Qatar Investment Authority, Nasser Ghanim Tubir Al-Khelaïfi, è anche il massimo dirigente e proprietario della squadra di calcio della capitale francese del Paris Saint Germain, una società che è riuscita ad arruolare, grazie a contratti milionari, le stelle pedatorie del momento e cioè Messi, Mbappé e Neymar.
Una squadra imbattibile sulla carta, anche se il calcio riesce, a volte, a sorprendere come avvenuto nel 2000 quando la squadra di dilettanti del Calais riuscì a disputare la finale della coppa di Francia.
Perché questo sport può essere l’ennesima conferma dell’uso che ne fa il potere per narcotizzare l’opinione pubblica, un potente oppio dei popoli, ma esprime qualcosa di più profondo. Lo aveva colto il teologo tedesco Ratzinger in uno scritto, molto citato, del 1985 legato proprio ai mondiali in preparazione nell’anno successivo. Il futuro papa Benedetto XVI parlava del gioco come tensione interiore verso uno stato di libertà sperimentabile in paradiso. Una leva potente della grandezza dell’animo umano che resta tale anche se può essere inquinato, «da uno spirito affaristico che assoggetta tutto alla cupa serietà del denaro, trasforma il gioco da gioco a industria, e crea un mondo fittizio di dimensioni spaventose».
È proprio lo splendore della dignità umana che sta alla radice della riscoperta del volto e delle storie dei tanti lavoratori anonimi rimasti stritolati dalle logiche del denaro.
Abbiamo sentito il portavoce italiano di Amnesty international, Riccardo Nuory, sperando di avere qualche notizia in controtendenza, ma l’attuale sistema del calcio mondiale sembra che abbia archiviato il capitolo mondiali del Qatar con la cerimonia di chiusura che ha visto la vestizione di un panno prezioso sulla divisa del capitano della squadra vittoriosa.
È sbagliato credere che la partita sia ormai finita. La si può giocare ancora dopo il triplice fischio finale come dimostra l’impegno delle donne di Plaza de Mayo che in Argentina hanno usato il loro fazzoletto di madri e nonne per esprimere la ricerca ostinata di figli e figli scomparsi, dal 1976 al 1983, durante gli anni bui della dittatura. La più nota tra di loro, Hebe de Bonafini, è morta il 20 novembre del 2022, ma, poco prima di Natale, è arrivata la notizia del ritrovamento, numero 131, di un figlio di genitori fatti scomparire e trucidati da un regime militare che ha creduto di restare impunito con la complicità di tanti.
Una lezione di vita che vale per sempre.
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