E, infatti, alcuni conoscono forse l'episodio delle proteste ma non la tesi sostenuta che meritava e merita attenzione analitica considerando che il saggista scrive per una fonte autorevole espressione dei cosiddetti ceti medi colti e riflessivi.
Ma nel maggio 2015 lo stesso Panebianco aveva scritto un pezzo ancora più significativo che ha contribuito a fermare l'iter parlamentare di una legge approvata, senza un voto contrario, alla Camera per riabilitare oltre mille soldati italiani fucilati ingiustamente durante la Prima guera mondiale con processi sommari, decimazioni o giudizi formalmente regolari ma guidati da incivili leggi savoiarde.
Se le parole sono pietre e sulle idee bisogna ragionare, il percorso logico seguto dal politologo bolognese merita una grande attenzione anche per capire il fondamento della sua tesi.
Riporto un brano del suo articolo pubblicato il 27 maggio 2015, all'indomani dell'insolito voto della Camera:
«Quello stesso Stato che nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia organizza manifestazioni per onorare i propri morti in battaglia e i sacrifici del Paese, ne svuota il significato decretando che coloro che si rifiutarono di combattere sono degni di essere onorati al pari di quelli che morirono armi in pugno.
I parlamentari che hanno voluto questo provvedimento intendevano raggiungere, presumibilmente, due obiettivi.
Il primo era depotenziare simbolicamente la partecipazione italiana alla Grande Guerra, in nome e per conto di un generico pacifismo cristiano (se si leggono alcuni degli interventi parlamentari a sostegno del provvedimento ciò appare evidente).
Non si trattava solo di esprimere un giudizio negativo su quel conflitto ma anche sul ruolo svolto dall’Italia. Altro che celebrare, sia pure con la sobrietà giustamente richiesta da Gian Enrico Rusconi su La Stampa (24 maggio), la vittoria italiana che i nostri soldati di allora, quelli che caddero e quelli che tornarono, fortissimamente vollero.
Il secondo obiettivo era più subdolo.
Forzando ideologicamente l’interpretazione della Costituzione, attribuendo alla Repubblica un rifiuto della guerra in quanto tale anziché di quelle guerre d’aggressione a cui pensavano i costituenti quando scrissero l’articolo 11, lo scopo, plausibilmente, era di porre un’ipoteca sull’uso, presente e futuro, dello strumento militare, rendendolo più difficoltoso.
Se chi diserta ha la stessa dignità di chi combatte, cosa diventa lecito pensare di quelli che, nonostante tutto, scelgono di obbedire agli ordini?
E che cosa pensare, poi, di quelli che, rispettando gli ordini, addirittura muoiono in combattimento? Forse il Parlamento farebbe meglio a dedicare un supplemento di attenzione alle implicazioni, simboliche e pratiche, di certe sue scelte».
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