Cronaca di un itinerario in Italia, dal porto di Genova a quello di Trieste, nelle scuole di Parma per arrivare a Roma, alla vigilia del Giubileo tra scenari di guerra sempre più vicini, per dare voce ad un’umanità che non si rassegna alla seduzione della logica bellica. Con una domanda che rimanda a quella di Isaia: “Quanto manca sentinella della notte?”. “Che tempi abbiamo per cambiare davvero il corso del mondo?”
Dicembre 2024
Il mio viaggio per Trieste è iniziato il 2 aprile 2022 a Genova, nella piazza antistante la cattedrale di San Lorenzo che ho scoperto collocata molto vicino al porto. La città “Superba”, con la gente dai modi spicci, l’ho conosciuta negli anni tramite la corrispondenza di Silvano Gianti, capace come pochi di saper cogliere i semi di novità ribelle al conformismo che è la tentazione di ogni tempo. È stato lui a parlare su Città Nuova del caso di un collettivo di portuali che nel 2019 hanno deciso di non collaborare alle operazioni di carico e scarico di una nave che fa la spola tra gli Usa e l’Arabia Saudita trasportando materiale bellico. Un gesto che ha creato scandalo e suscitato la riprovazione dei maggiorenti che controllano il sistema portuale con metodi emersi poi in alcune recenti inchieste giudiziarie.
Gli agenti della polizia, tuttavia, si sono recati prima, la mattina presto, nelle case dei lavoratori della banchina per contestargli violazioni di carattere penale. Roba pesante che provoca isolamento e incomprensione, ma è accaduto l’imprevisto, e cioè che anche le associazioni cattoliche ufficiali, di solito molto prudenti, non sono rimaste a guardare passivamente ma, formando un cartello nominato “Genova città aperta alla pace”, hanno manifestato solidarietà pubblica ai portuali dall’evidente collocazione politica espressa con il logo del collettivo che associa l’àncora ad un martello.
Papa Francesco è stato il primo ad indicare il loro gesto, comune ad altri lavoratori dei porti europei, come esempio da imitare nella resistenza alla collaborazione alla filiera della guerra. Quel porto gli è molto caro perché legato al transito della sua famiglia espatriata verso l’Argentina durante gli anni del fascismo.
L’identificazione dell’astigiano Bergoglio con i migranti è così totale da esporlo a forti incomprensioni. Le stesse raccontate dal mio amico Silvano Gianti, piemontese anch’egli ma di Cuneo, nelle corrispondenze da Ventimiglia, assieme a storie di notevole umanità che continuano a segnare quel territorio di confine con la Francia a due ore di viaggio da Genova. “Porti aperti ai migranti ma chiusi alle armi” è lo slogan del Calp che sintetizza l’itinerario della vita di Silvano, sempre ironico e beffardo, scomparso improvvisamente nel 2020 durante l’epidemia di Covid, senza la possibilità di un commiato comunitario.
Da poco a Ventimiglia sono arrivate tre nostre amiche comuni che continuano il lavoro di Silvano a servizio di quel pezzo di umanità che vuole gridare la fraternità con la vita. Tra di loro Maria Silvia arriva da una delle periferie di Napoli dove ha insegnato per anni, ma anche lei è del cuneese. Minuta di aspetto, ha il cuore grande come è “granda” quella terra del Piemonte.
Silvano aveva fretta
L’ultima volta che l’ho visto a Genova, Silvano aveva fretta. Doveva consegnare degli aiuti a famiglie impoverite dalla crisi, ma mi ha fatto fare un giro tra gli stretti carruggi anche per farmi vedere la sede dell’associazione “Città fraterna” nata proprio per rispondere a necessità concrete di aiuto. Per questo mi è sembrato di avvertire la sua presenza quando il 2 aprile del 2022, con i volti ancora bardati dalle mascherine protettive dal virus, ho parlato in piazza nome del Movimento dei Focolari, assieme ai vescovi di Genova e Savona, la Pastorale sociale della Cei, Pax Christi, l’Agesci per dare sostegno ai portuali del Calp rappresentati da Josè Nivoi, incontrato sul web in alcuni collegamenti pubblici, per poi consegnare alla sede dell’autorità portuale la richiesta formale di non far transitare carichi di armi in contrasto con la Legge 185/90.
Il corteo variopinto è stato breve, sobrio e frugale come sono i genovesi, in un clima segnato da quanto avvenuto il 24 febbraio di quell’anno, con la guerra precipitate nel cuore dell’Europa posta davanti al bivio tra esercitare un ruolo autorevole di mediazione o essere una pedina di strategie geopolitiche decise altrove. Restano poi irrisolte le lacerazioni delle coscienze davanti all’uso delle armi davanti all’assenza di una politica della nonviolenza attiva evocata come necessaria dal papa nel 2017.
Collegandosi con il parlamento italiano, il 22 marzo 2022, il presidente ucraino Zelenzki ha citato proprio Genova per invitare ad immaginarla segnata dai bombardamenti come la città costiera di Mariupol. In effetti già nel 1942 sul capoluogo ligure, sede di importanti industrie, si scaricarono 179 tonnellate di ordigni da parte dell’aviazione britannica.
Volenti o nolenti ci troviamo, oggi, davanti alla domanda che alcuni giovani posero nel1955 alla redazione di Adesso per sapere, in caso di guerra che appariva imminente, se dovevano usare le armi e verso quali obiettivi puntarle.
Un dilemma che si pone oggi nel conflitto in Medio Oriente tra limiti all’esercizio della difesa da parte di Israele dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023 e la giustificazione della resistenza armata del popolo palestinese che rivendica il diritto di esistere. Si deve proprio al genovese Paolo Emilio Taviani, rappresentate della Dc nel CLN, la giustificazione dell’uso estremo di strumenti violenti nell’opposizione ad un regime ingiusto.
“Verranno di notte”
Dopo oltre 2 anni da quel giorno di aprile del 2022 ho preso il treno per raggiungere Trieste, porto dell’Europa centrale verso quel Mediterraneo che Caracciolo definisce Medio Oceano, luogo di transito e comunicazione tra l’Atlantico e il Pacifico.
Lo scenario generale è sempre più inquietante. I vertici militari parlano ormai di uscire dall’ipocrisia e definire “Scuola di guerra” l’alta formazione degli ufficiali. La Svezia, dove l’ultradestra sostiene il governo, ha abbandonato l’eredità politica di Olof Palme che aveva fatto della neutralità della nazione un fattore riconosciuto di mediazione per la ricerca della pace, ha aderito alla Nato, ripristinato il servizio militare e comincia a diffondere manuali di preparazione della popolazione alla guerra.
Sul porto di Trieste si consuma un grade contesa sul suo destino, se cioè deve utilizzato principalmente, come ormai definito in numerosi studi strategici, quale snodo del traffico di armi e soldati dell’Alleanza atlantica oppure restare un luogo aperto al libero commercio internazionale, ponte tra Oriente e Occidente, Nord e Sud. Passa da questa affascinante città cosmopolita il crocevia della storia.
La sede di Fincantieri è vicino alla piazza grande aperta sul molo dove nel 1918 sbarcarono i marinai italiani per conquistare l’ambito porto dell’impero austroungarico. È completamente pubblica la più grande società cantieristica navale in Europa che compete con i francesi nel fornire navi da guerra all’Egitto e tramite la sua controllata statunitense vende navi da guerra ai sauditi. È ormai sempre più consolidato il rapporto con Leonardo, altra azienda controllato dallo Stato che permette all’Italia di trovarsi ai vertici internazionali dell’export di armi al tempo della guerra mondiale a pezzi. Lavora a questo obiettivo con grande competenza a Fondazione Med-Or promossa da Leonardo stessa per sostenere l’espansione del sistema Paese nel Medio Oriente allargato.
Si tratta di scelte determinanti effettuate dall’alto nel nostro Paese senza una chiara consapevolezza dell’opinione pubblica. Per questo motivo sono rimasto perplesso quando nel luglio di questo 2024, proprio a Trieste, ho partecipato alla Settimana sociale dei cattolici in Italia promossa per andare al cuore della democrazia in crisi senza che si affrontasse il nodo della carenza di democrazia economica che emerge dall’uso del porto di questa città.
Con un Europa alle porte di una guerra globale aperta all’uso dichiarato delle armi nucleari, solo un tavolo dei delegati è stato dedicato alla questione della “pace” che si presta a declinazioni più varie con l’immancabile auspicio di puntare sulla formazione dei giovani. Un auspicio sempre valido, ma che appare come una dichiarazione di sconfitta davanti alla tragedia dell’ora attuale che appare consegnata alla logica ferrea della guerra.
Dieci anni addietro, nel 2014 Francesco non aveva nascosto, visitando il “sacrario” di Redipuglia, lo smarrimento davanti ai resti di oltre 100 mila giovani immolati nel mattatoio del primo conflitto mondiale. Disse di aver udito il grido di Caino che continua dire “a me che importa?” in un mondo dove agiscono i «pianificatori del terrore e gli interessi delle industrie delle armi». Un grido che si alza sempre più imponente ma che ancora in pochi sembrano sentire. Tra questi lo scrittore triestino Paolo Rumiz con il suo “Verranno di notte. Lo spettro della barbarie in Europa”, un libro appena pubblicato dove è molto duro con la von der Leyen.
Trieste crocevia d’Europa
La questione Trieste è stata sollevata e presa in carico il pomeriggio del 19 novembre in uno spazio ristrutturato del porto vecchio con la tappa della marcia mondiale della pace che si incontra con quella dei “Fari di pace”, iniziata, come detto, a Genova nel 2022 a sostegno dei portuali obiettori di coscienza per toccare poi Spezia, Napoli, Bari e Ravenna, coronata sempre con una lettera pubblica rivolto alle autorità pubbliche per far rispettare la legge 185/90.
La missiva porta la firma iniziale del vescovo di Trieste Enrico Trevisi che già si è esposto senza tentazioni equilibriste nel perorare l’accoglienza dei migrati che arrivano in città dalla Rotta balcanica. Arriva dal mantovano, terra di Mazzolari. Ascolta con attenzione tutti gli interventi previsti e quello del rappresentante dell’autorità portuale e di un ufficiale della guardia costiera che termina recitando i versi scritti nelle trincee del 15-18 da Ungaretti: “Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte…”.
Il quotidiano locale, glorioso e ancora molto letto, finirà per dedicare una foto all’evento con una didascalia che parla di una preghiera, mai avvenuta, e di un appello al cessate il fuoco. Il minimo che si concede a cose del genere: evocazioni senza concretezza. Mentre l’incontro puntava direttamente a riconsiderare il destino segnato del porto e il flusso di armi.
Il vescovo è intervenuto, tra l’altro, per auspicare di tassare gli ultra-profitti delle imprese di armi. Ci sarebbe materiale per attizzare un dibattito pubblico serio, assieme a polemiche inevitabili, invece il tutto sembra consegnato alla manifestazione del «sospiro della creatura oppressa, l'anima di un mondo senza cuore», per citate la definizione di religione in Marx, istanze velleitarie di chi invoca genericamente la pace con il rischio di prestare soccorso agli oppressori.
Vedremo nel tempo se il seme piantato a Trieste porterà frutto, intanto l’Italia si appresta a varare la sua seconda portaerei da guerra intitolata proprio alla città giuliana: la cerimonia è prevista nel porto di Livorno il 7 dicembre con la nave da 245 metri di lunghezza, 36 di larghezza e un dislocamento di 38.000 tonnellate, predisposta cioè, come dice il comunicato del ministero della Difesa, per «condurre operazioni di assalto anfibio assicurando una prolungata persistenza in area di operazioni con elevata autonomia logistica».
Con tale dotazione si consolida «il nuovo concetto strategico di difesa» che chiede di intervenire oltre i confini nazionali ma ovunque i nostri interessi vengano messi in pericolo come dimostra l’invio dal porto di Taranto, nel maggio 2024, della portaerei Cavour verso il mar cinese a sostegno della marina militare Usa.
Parma, città dei maestri di vita
Con queste considerazioni in mente ho preso il treno per raggiungere Parma dove ho fatto una serie di incontri con gli studenti delle superiori nell’ambito del festival della pace promosso ogni anno in questa città elegante, ricca di storia, cultura e impegno civile.
Vengo invitato tramite l’associazione Sguardi di fraternità che fa parte della Casa della pace, una realtà consolidata grazie a testimonianze credibili e durature di impegno concreto. Come ho già raccontato su cittanuova.it, è qui che è nato e cresciuto l’esempio tra i più riusciti di accoglienza e integrazione dei migranti con il Ciac (Centro immigrazione asilo cooperazione) sorto nel 1993 con la campagna “Fermiamo un fucile per volta” promossa per dare accoglienza e sostegno dei disertori della guerra nella ex Jugoslavia, il terrificante conflitto rimosso nella storia recente dell’Europa che ha conosciuto il ritorno della pulizia etnica e il genocidio.
Parla piano e in modo dimesso, ma ha una determinazione d’acciaio il suo fondatore Emilio Rossi al quale ho chiesto di raccontare le motivazioni profonde di un percorso che ha coinvolto più enti locali ed assunto un modello su scala nazionale, alternativo alla logica della paura e della repressione che induce il fenomeno migratorio di un globo in rapida mutazione.
Un lavoro che ha avuto come alleato naturale una figura di vero e proprio maestro di vita, Danilo Amadei, esperto di pedagogia, amico di Danilo Dolci, cattolico a tutto tondo in un’ambiente culturale esigente che chiede di rendere ragione di ogni gesto. Ha ricoperto in modo innovativo ruoli di amministratore pubblico misurandosi con la difficoltà e la contraddizione della politica mantenendosi fedele alla scelta della nonviolenza che lo ha portato ad essere tra i primi obiettori di coscienza in Italia.
Ha scritto di recente un’autobiografia dal titolo resistenziale “Ora e sempre nonviolenza” con un sottotitolo che rivela un mondo intero: “una testimonianza in un percorso collettivo”. Ho intervistato anche Danilo su cittanuova.it a partire da alcune domande incentrate sul passaggio culturale avvenuto dal tempo in cui i giovani avevano grandi pretese dalla Chiesa tanto da occupare, a Parma, la cattedrale per rivendicare una maggiore coerenza evangelica dei credenti fino all’attuale apparente indifferenza. Eppure in quella città non mancano testimonianze eclatanti come ad esempio i missionari saveriani nati proprio a Parma, un patrimonio immenso di radicalità di vita e apertura al mondo.
Tra questi religiosi ho avuto modo di conoscerne uno particolarmente anomalo perché passato dalla tonaca all’impegno politico diretto fino al Parlamento europeo, per poi, poco prima di morire, tornare a celebrare messa. Una persona dal carattere aperto e gioviale, Eugenio Melandri, capace di donazione totale e dal cuore inquieto. È stato tra gli artefici del movimento dal basso che ha permesso di approvare nel 1990 la legge 185 che finora ha cercato di porre limiti all’esportazione incontrollata di armi. Sono stati i saveriani, inoltre, assieme al fondatore di Emergency, Gino Strada, a sostenere la ribellione delle operaie contro la produzione di mine antiuomo della Valsella Meccanotecnica nel bresciano, che ha permesso al nostro Paese di essere capofila della Convenzione internazionale di messa al bando di questi strumenti orribili di morte che contaminano ancora mezzo mondo con il loro marchio italico.
Si comprende da queste brevi note perché a Parma esiste un assessorato alla pace che non è affatto decorativo ma ha un ruolo propulsore interpretato con grande generosità da Daria Jacopozzi. Ha anche la delega alla partecipazione che è il sale e la sfida della democrazia.
In questa città è inoltre molto viva la memoria della resistenza armata opposta nell’agosto 1922 alle milizie fasciste poco prima della marcia su Roma, quando i miliziani del ferrarese Italo Balbo, ras temuto anche da Mussolini, furono respinti dalla reazione popolare del quartiere Oltre torrente. Una vicenda legata al mito degli “arditi del popolo” guidati da Guido Picelli, una tempra di combattente forgiato nella fornace del primo conflitto mondiale che, poi, trovò la morte nel 1937 nella terrificante guerra civile spagnola. È, invece, scarsa la memoria del cattolico Ulisse Corazza, il giovane segretario del Partito popolare che rimase ucciso, armi in pugno, sulle barricate di Parma.
Ho avvertito, quindi tutto il peso e la responsabilità, di tornare per la terza volta in alcune delle scuole superiori parmigiane come proposto e programmato dal mio amico Roberto Marchioro, medico psichiatra, presidente di Sguardi di fraternità, che mantiene i rapporti con le docenti molto brave e motivate di alcune classi.
Una premessa necessaria di continuità e di approfondimento che deve precedere l’incontro di alcune ore in cui si incrociano tanti volti che variano dall’interesse attento e partecipe reale alla distrazione e noia sempre dietro l’angolo. È chiaro che la vera impresa educativa è quello degli insegnanti che vedono passare di anno in anno generazioni sempre più diverse che accolgono nel fiore dell’adolescenza per vederle maturare coltivando le domande e le attese della gioventù che segnano poi l’intera esistenza. È un compito che richiedere grande cura e la passione educativa dell’intera comunità scolastica che non conosce i tempi di maturazione dei semi piantati in quegli anni decisivi.
C’è voluta, negli anni 60, la denuncia urticante di don Milani, il trauma della scuola di Barbiana per incrinare «i miti eterni della patria e dell’eroe», come cantava Guccini, rimasti anche dopo il lavacro del secondo conflitto mondiale culminato nel fungo atomico, cioè nella nuova era della possibile autodistruzione dell’umanità.
Ciò che non vogliamo guardare
Ora nel novembre 2024 mi ritrovo nella situazione surreale di essere chiamato a parlare di pace mentre si fanno sempre più cupe le prospettive dell’estensione della guerra in Europa anche con la minaccia dell’arma nucleare e nel Medio Oriente si consuma da oltre un anno una carneficina senza fine, oscurata dai nostri media nelle immagini più cruenti che lasciano sgomenti davanti allo strazio della morte di masse di civili inermi, comprese i bambini.
Come sappiamo, basta il dolore straziante di un piccolo per una malattia impietosa a generare dubbi sul senso dell’esistenza e la bontà della creazione. Come non si può restare sgomenti e senza parole davanti agli eccidi più efferati, alla violenza gratuita inferta su chi è indifeso? Come si può parlare di perdono e riconciliazione davanti a torti imperdonabili che chiedono vendetta di generazione in generazione?
Le prime pagine dei giornali, che i ragazzi non sono abituati a vedere e neanche a toccare, non possono fare a meno di ripotare le notizie sull’estensione possibile della guerra che porta il presidente Usa Biden, ormai in procinto ad uscire di scena, ad autorizzare l’invio in Ucraina delle mine anti-uomo senza che i suoi alleati, a cominciare dal governo italiano, dicano alcunché.
Siamo dentro la lunga eredità del nazismo nella nostra storia, che non si è estinto con la morte di Hitler nel bunker di Berlino. La comparsa del male assoluto ha legittimato l’uso della violenza più estrema per debellarlo, i bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, si pensi a quella al fosforo su Dresda, e italiane fino alla scoperta “provvidenziale”, come ha scritto Churchill, dell’arma nucleare lanciata sulla popolazione giapponese di Hiroshima e Nagasaki. Non ne bastava una per dimostrarne la potenza letale?
Sono perciò sempre più persuaso che l’opinione pubblica, che si dice prevalentemente orientata contro la guerra, in verità vorrebbe solo essere lasciata in pace, finendo per accettare come una necessità l’invio di armi in Ucraina davanti alle pressioni della Nato, la crisi dell’Onu e la carenza di iniziativa politica europea. Una lenta ma progressiva desensibilizzazione che conduce ad accettare l’inevitabilità del riarmo e la possibilità del coinvolgimento diretto nel conflitto come già teorizzato da eminenti think tank destinati ad influenzare il senso comune grazie ai tanti canali di comunicazione di cui usufruiscono in numerose sedi, a cominciare dalle tv.
Questo clima sempre più plumbeo viene avvertito in maniera impercettibile dalla sensibilità dei più giovani che, tra l’altro, in numerosi istituti di ogni grado ricevono la visita dei militari coinvolti in attività formative tanto che un gruppo di docenti, genitori e studenti hanno dato vita ad un osservatorio contro la militarizzazione delle scuole.
È perciò evidente il rischio di promuovere attività formative sulla pace accettate formalmente dagli studenti, ancora tolleranti verso una certa retorica dei loro insegnati, rimasti a categorie culturali esibite con arcobaleni e colombe, ma intimamente convinti o tentati ad accettare l’inevitabilità del conflitto. Anche se ciò che manca in questo preteso realismo indotto da un nuovo sentire comune, è la consapevolezza di una chiamata diretta alle armi che coinvolgerà direttamente le giovani generazioni. La coscrizione obbligatoria è solo sospesa in Italia. Ma se come dicono apertamente i vertici militari occorre prepararsi alla guerra, la cartolina di precetto arriverà nelle case dei giovani che ora stanno ancora sui banchi di scuola degli ultimi anni delle superiori. Per prima si allargherà il numero dei volontari, poi quello dei riservisti e poi a tutti per “l’usura del personale”, come scrivono in linguaggio burocratico, richiesta dall’attività bellica.
Anche in Germania in preda alla crisi impensabile della Volkswagen, impegnata in un vasto piano riarmo deciso in tempi rapidi, con alle porte delle elezioni dove si attende una crescita della destra neonazista, sta valutando di reintrodurre la leva semi obbligatoria ispirandosi al modello svedese
Gli unici che, nel nostro Paese, sembrano avvertiti dalla serietà dello scenario imminente sono i militanti del Movimento nonviolento che invitano chiunque a fare una dichiarazione ufficiale preventiva di non collaborazione in caso di guerra con una missiva da indirizzare alle autorità competenti. Un gesto che, se compiuto in massa, avrebbe effetti importanti, anche perché è molto breve il tempo che intercorre dall’avverarsi del casus belli alla campagna mediatica che precede l’inevitabile coinvolgimento in guerra.
Sembra oggi. La storia di un giovane del secolo scorso
In tre mattinate ho potuto fare il mio intervento alla presenza di oltre 500 studenti in diverse plessi scolastici. Come al solito, ho incrociato sguardi di ogni genere mentre facevo scorrere le immagini che uso per accompagnare la relazione: manifesti di propaganda della grande guerra. frasi emblematiche e foto delle principali agenzie di stampa assieme ai dati sul riarmo mondiale e il ruolo attivo in questo campo dell’Italia che compare tra i primi esportatori di armi a livello internazionale.
L’intento non è certo quello di alimentare la depressione ma di sollecitare a coscienza personale di ribellione alla guerra per poi capire come agire assieme in maniera concreta. Porto l’esempio dei lavoratori obiettori di coscienza alla produzione bellica che hanno permesso di arrivare alla legge 185/90 ora in via di smantellamento e quindi da difendere dalla pressione delle lobby delle armi, dei portuali di Genova e del comitato riconversione in Sardegna che ha condotto a fermare per alcuni anni il flusso in Arabia Saudita di missili e bombe prodotte dalla controllata italiana della tedesca Rehinmetall.
Una vittoria della società civile capace di incidere sulle scelte che contano e che ora indica la necessità di un laboratorio nazionale permanente di riconversione economica per indicare strade diverse alle “magnifiche sorti e progressive” della tesi che associa sviluppo economico e industria di armi.
Parlo di papa Francesco che è un rompiscatole, di Giorgio La Pira come esempio di un vero e concreto politico di pace, sperando che si vada a vedere cosa ha fatto, di Franca Faita che dovrebbe essere nominata senatrice a vita perché con le sue compagne hanno fermato la produzione di mine in Italia.
Racconto di un giovane di provincia che nel 1914 era atterrito e amareggiato dai troppi preti che, sui diversi fronti, benedivano le armi con cui un’intera generazione si sarebbe scannata nelle trincee. E di come poi quella persona decise, pur indossando una divisa, di non sparare un colpo contro il nemico e poi nel 1949, dopo aver osteggiato il fascismo e diventato padre costituente, volle definirsi deputato di pace presentano per la prima volta in Parlamento una proposta di legge sull’ obiezione di coscienza al servizio militare che gli inimicò buona parte del su partito.
Una storia, quella di Igino Giordani che, ormai vecchio, scrisse in un’autobiografia nel linguaggio semplice e profondo da grande conoscitore degli autori dei primi secoli del cristianesimo che a lui sembrò di ricevere contribuendo a fondare il Movimento dei Focolari di cui è espressione il foglio per cui scrivo.
E proprio su Città Nuova invito a trovare traccia dei percorsi alternativi alla cultura della necessità e giustificazione dello scontro bellico. Dell’alleanza per la pace in Medio Oriente che vede la collaborazione tra ebrei e palestinesi, dalle storie incredibili di riconciliazione e perdono da parte di chi ha visto i propri cari morire in maniera orrenda ma non vuole altro sangue e vendetta. Esperienze che non sono consolatorie ma richiedono di essere conosciute, ascoltate e diffuse per incidere e trovare spazio nelle trattative per porre fine al massacro.
In questi incontri parlo ovviamente del ruolo della finanza nel sostenere il comparto delle armi e delle guerre. E quindi sulla scelta da promuovere di spostare i conti correnti personali, associativi, istituzionali verso le banche etiche, come tassello di un’intera economia da disarmare perché uccide in tanti modi.
E questo cambiamento richiede scelte strutturali, che nel caso italiano vuol dire discutere delle finalità delle grandi imprese a capitale pubblico a partire da Leonardo che è un grande patrimonio da orientare verso produzioni civili in linea con la transizione ecologica mente la direzione attuale segue direttive politiche trasversali che hanno portato, ad esempio, qualche mese addietro a dismettere, a favore in pratica dei cinesi, un’importante industria di produzione di autobus che rappresenta, invece, l’esempio di un investimento decisivo nel trasporto pubblico a basso impatto ambientale.
Di tali questioni ho avuto modo di parlare, grazie alla casa della pace, poi, anche con alcuni docenti dell’università di Parma per capire l’eventuale contributo al Laboratorio di riconversione industriale che già vede interessati ricercatori e studiosi universitari di Cagliari, Torino e Perugia, assieme ad esponenti di associazioni, movimenti e centri studio.
Quello che ho potuto cogliere nelle reazioni e nelle domande degli studenti, che Roberto Marchioro ha raccolto, la richiesta di un livello di approfondimento serio che è come una traccia di lavoro da continuare.
La questione dei tempi
Una domanda esigente che, tra le altre, è quella che pone Rocco, un ragazzo di 18 anni, sui “tempi”, cioè sulla possibilità di realizzazione di quanto affermiamo non nel tempo lungo o anche medio, ma “adesso”.
Che poi è il titolo della rivista a cui alcuni giovani del 1955 chiedevano di sapere se dovevano, in caso di conflitto con l’Unione Sovietica, prendere le armi e per rivolgerle a chi. “Tu non uccidere” fu la risposta netta e articolata che, in quel momento, diede don Primo Mazzolari pur dovendosi nascondere, per alcuni anni, dietro l’anonimato per non cadere sotto la censura ecclesiastica che gli procurò tante difficoltà nella sua vita, senza impedire tuttavia a questo prete di campagna di essere considerato un punto di riferimenti per molte persone, dentro e fuori la Chiesa.
Qualche anno prima, nel 1941, nella risposta ad una lettera di un giovane aviatore, Mazzolari rispose che non era tenuto ad obbedire agli ordini che gli venivano dall’autorità superiore, intaccando così uno dei cardini della teorica generale sull’obbedienza dovuta alle legittime autorità in caso di guerra.
L’evangelico “non uccidere” era in contrasto con il consiglio dato sui campi di battaglia ai soldati cristiani di “uccidere senza odio”, secondo la formula che lo stesso Mazzolari accettò in un primo momento, come interventista democratico, nel primo conflitto mondiale, salvo poi cambiare radicalmente idea davanti alla realtà della guerra.
«Tu parli così delle armi e della guerra perché non l’hai conosciuta come è capitato a me» è stata la risposta che una giovane di origine straniera ha sentito di dover dare alle affermazioni di uno studente, che durante uno degli incontri a Parma, ha reagito al mio intervento magnificando l’utilità della guerra e delle armi con accenti di antica matrice futurista.
“Tu non uccidere”. Siamo in grado noi oggi di rispondere allo stesso modo? Oppure ci nascondiamo dietro formule ambigue e possibiliste? Lo spettro della soluzione finale dell’arma nucleare è sempre più vicina, ci dicono gli scienziati americani che mostrano le lancette avvicinarsi a pochi secondi dalla mezzanotte dell’orologio dell’Apocalisse.
«È venuto il tempo il tempo di decidere per cosa morire e per cosa uccidere». Ci arriva oggi, con una chiarezza da ammirare di un autorevole studioso della Cattolica di Milano, la risposta opposta a quella di Mazzolari. Con l’evidente invito a non farsi condizionare dalle minacce dell’uso dell’arma nucleare da parte di Putin ma di puntare sul riarmo non solo dell’Ucraina per arrivare alla vittoria e quindi ad una pace giusta.
D’altra parte non c’è altra soluzione se si pone il fatto che Putin è il nuovo Hitler verso il quale non si può ripetere l’errore fatto a Monaco nel 1938. In questo senso sono tacciate come inconsistenti ogni discussione sulle cause della guerra a partire dalla decisione della Nato di espandersi ad Est e sul fallimento voluto dal premier britannico Johnson di ogni trattiva di tregua in Ucraina avviata nell’aprile del 2022.
Liberarsi da una maledizione
La maledizione del “paradigma Hitler” è usata da parte russa per giustificare l’operazione speciale verso Kiev, la gerarchia ortodossa benedice la riscossa nazionale nel solco degli immortali dei quali si fa memoria ogni 9 maggio con gigantesche manifestazioni in onore dei 27 milioni di morti nella guerra contro i nazifascisti, compreso il sacrificio di un milione di russi nella battaglia di Stalingrado che si svolse dal luglio 42 al febbraio 43. Celebre il discorso del dittatore sovietico che nel 1941 per motivare alla guerra usò l’antica invocazione di “fratelli e sorelle”.
E non è permanente il riferimento al genocidio del popolo ebraico voluto da Hitler per giustificare la necessità di difendere Israele da ogni attacco mortale al popolo che giustifica la reazione di “difesa” in corso nella Striscia di Gaza?
Quante guerre continuano ad essere giustificate con il paragone al nazismo? E la stessa bomba nucleare non trova origine nella giustificazione di trovare l’arma finale prima degli scienziati hitleriani? I fascisti italiani non confidavano forse nella scoperta del raggio mortale atteso dalle ricerche del genio Guglielmo Marconi?
Come ha detto Gunther Anders, con l’obbedienza cieca all’uso della bomba atomica, che continua ad essere spacciata come garanzia di pace assicurata dall’equilibro del terrore, siamo tutti eredi di Eichmann, il grigio funzionario dei campi di concentramento convinto della propria innocenza perché mero esecutore di ordini altrui.
Dobbiamo perciò far conoscere e ascoltare la lezione di chi come Joseph Rotblat, al quale i nazisti avevano sterminata la famiglia nei campi di concentramento, decise di non collaborare al progetto Manhattan di costruzione dell’arma atomica e ha continuato ad invitare gli scienziati e i tecnici a non collaborare alla creazione di strumenti di morte.
Come sappiamo i dubbi postumi di Oppenheimer vennero ridicolizzati e stigmatizzati dal presidente statunitense Truman che si vantò di aver «speso più di due miliardi di dollari sulla più grande scommessa scientifica della storia», la bomba capace di sfruttare «il potere fondamentale dell’universo. La forza da cui il sole trae energia è stata lanciata contro coloro che hanno provocato la guerra in Estremo Oriente».
Preso da queste riflessioni, tornando a Roma, ho assistito, ad un mese dal Natale se segna l’inizio del Giubileo, al convegno “La Nato verso il 2030. Strategie per un futuro incerto” promosso dal centro studi Machiavelli presso l’università Link, che ha sede nello storico sito del Casale di san Pio V legato alla visione che quel papa ebbe della vittoria della flotta cristiana nella battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571. Nell’offerta formativa dell’ateneo privato troviamo anche la materia di Studi strategici e della sicurezza.
Il Centro Machiavelli è da apprezzare per la trasparenza e pubblicità con cui tratta questioni importanti chiamando i massimi rappresentati dei vertici industriali e militari che, evidentemente, pur essendo consapevoli della refrattarietà istintiva dell’opinione pubblica a trattare di spese necessarie per le armi, non si mostrano affatto preoccupati di una possibile resistenza politica verso la necessità del riarmo chiesto costantemente dalla Nato in linea tra l’atro con i vertici europei che si stanno preparando ad un confronto non facile con il nuovo presidente Usa che, come ha ricordato l’ex ministra della Difesa Pinotti, nei precedenti incontri non ha avuto di esprimersi con toni duri ed eclatanti, tipo pugno sbattuto sul tavolo.
Far conoscere i tanti pericoli incombenti di uno scenario geopolitico incerto, secondo il parere concorde dei convegnisti, è la premessa necessaria per far crescere una “cultura della sicurezza”, la spesa in armi. Insomma ciò che, ad esempio, un efficace divulgatore come Federico Rampini afferma quando riconosce che sarebbe auspicabile dedicare più risorse a sanità e scuola ma sono altri gli investimenti richiesti al nostro Paese se intende svolgere un ruolo significativo nella politica internazionale.
Così l’Italia non partecipa solamente, ad esempio, come partner di secondo livello della statunitense Lockheed Martin al programma dei cacciabombardieri F35 ( di cui a luglio ha stanziato 7,5 miliardi per l’acquisto di 25 esemplari) ma sta investendo con Gran Bretagna e Giappone ( e si parla esplicitamente anche di Arabia Saudita) ad un programma avveniristico del caccia di sesta generazione Tempest (Gcap) che sfugge alle nostre categorie perché metterebbe in campo un vero e proprio sistema di informazioni in grado di decretare in pochi secondi la sconfitta del nemico. Con il voto della maggioranza, assieme a Pd, Azione e Iv, il Parlamento italiano ha previsto un investimento di 7 miliardi e 526 milioni di euro per la sola fase di ricerca e sviluppo del prototipo.
Non sfugge l’effetto che una tale prospettiva apre all’idea sempre ricorrente di poter assestare il primo colpo senza riportare danni a se stessi, che è il via libera all’uso di ordigni nucleari cosiddetti tattici. Il primo passo, cioè, di un percorso ignoto che supera anche il limite del terrore della mutua distruzione.
Come dico sempre negli incontri pubblici che faccio, il criterio da seguire, e che coinvolge il ruolo dell’informazione, è quello di “vedere, capire e agire”. Quindi non rimuovere lo sguardo ma conoscere i termini della realtà. Cercare di capire ciò che si riesce a vedere così da offrire strumenti per cambiare ciò che appare ingiusto.
Un esercizio paziente e non discontinuo per poter rispondere alla domanda di Rocco: è veramente possibile, senza rimandare a tempi ignoti, qui e ora, quel cambiamento che tu, e quelli come te, auspicate? Oppure è destinato a prevalere il potere seduttivo della guerra?


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