Il primo
conflitto mondiale (1914-1918) scoppiò dopo decenni di relativa pace. Secondo
la ricostruzione dello storico Emilio Gentile[1],
la scintilla cominciò a divampare quando re e comandanti stavano pensando di
andare o erano già in vacanza.
Quasi che la crescita della produzione bellica
fosse destinata solo a scopi di intimidazione e quindi una condizione
necessaria per mantenere l’equilibrio tra i coronati dei vari stati che, tra
l’altro, erano legati tra loro da vincoli di parentela, come dimostra una nota
foto di gruppo del 1893 con la regina Vittoria[2].
La “grande guerra” segna il punto di rottura
del nostro tempo. Si sa che lo stesso termine di soldato proviene dal soldo,
dal denaro necessario per armarlo e mantenerlo in forze fino a quando resterà
in vita. Ma nello scontro tra le potenze europee che si consuma a partire dal
1914 entra in gioco la potenza dell’industria di massa. La carneficina temuta e
descritta in tanti appelli è stata determinata dalla nuova organizzazione dei
fattori produttivi che necessitano di risorse potenzialmente senza fine e che
alimentano un debito destinato a gravare sulle popolazioni anche quando cessa
l’uso delle armi.
La questione
del disarmo non è l’ingenua credenza in una bontà originaria dell’essere umano
che smetterebbe di uccidersi a vicenda se solo non avesse a disposizione le
armi. Si possono compiere eccidi a partire dai colpi di bastone. L’epoca
contemporanea porta solo in evidenza la inedita capacità autodistruttiva
esercitata come sempre avvenuto da chi lucra e orienta la politica della guerra
che non può più rientrare neanche teoricamente nei limiti e nei riti dell’“antica
festa crudele” analizzata dal grande medievalista Franco Cardini[3].
Una visione
realistica del mondo, che risente della lezione del teologo Reinhold Niebuhr,
ha ispirato il discorso di Barack Obama nel 2009 all’atto di ricevere il premio
Nobel per la pace da comandante in capo di una superpotenza militare: «Gli
strumenti della guerra contribuiscono a preservare la pace. Ma questa verità
deve coesistere con un'altra, e cioè che la guerra, per quanto giustificata
possa essere, porterà sicuramente con sé tragedie umane.
C'è gloria nel coraggio e nel sacrificio di un soldato, c'è l'espressione di una devozione per il proprio Paese, per la causa e per i commilitoni. Ma la guerra in sé non è mai gloriosa e non dobbiamo mai sbandierarla come tale. La nostra sfida dunque consiste in parte nel riconciliare queste due verità apparentemente inconciliabili. La guerra a volte è necessaria e la guerra è, a un certo livello, espressione di sentimenti umani. Concretamente, dobbiamo indirizzare i nostri sforzi al compito che il presidente Kennedy invocava molto tempo fa. "Concentriamoci", diceva lui, "su una pace più pratica, più raggiungibile, basata non su un improvviso capovolgimento della natura umana, ma su una graduale evoluzione delle istituzioni umane"».
C'è gloria nel coraggio e nel sacrificio di un soldato, c'è l'espressione di una devozione per il proprio Paese, per la causa e per i commilitoni. Ma la guerra in sé non è mai gloriosa e non dobbiamo mai sbandierarla come tale. La nostra sfida dunque consiste in parte nel riconciliare queste due verità apparentemente inconciliabili. La guerra a volte è necessaria e la guerra è, a un certo livello, espressione di sentimenti umani. Concretamente, dobbiamo indirizzare i nostri sforzi al compito che il presidente Kennedy invocava molto tempo fa. "Concentriamoci", diceva lui, "su una pace più pratica, più raggiungibile, basata non su un improvviso capovolgimento della natura umana, ma su una graduale evoluzione delle istituzioni umane"».
Del difficile,
accidentato e controverso cammino
evolutivo delle istituzioni umane è stato testimone l’economista John Kenneth
Galbraith, consigliere di Kennedy, di Lyndon Johnson ma ancor prima del presidente Franklin Delano Roosevelt.
Dobbiamo a questo professore che ha insegnato nelle prestigiose università di Harvard, Cambridge e Princeton la descrizione
puntuale dell’ appropriazione dell’iniziativa e dell’autorità pubblica da parte
delle corporation che diventa «sgradevolmente visibile nei suoi effetti sull’ambiente e pericolosa
in quelli sulla politica estera e militare»[5].
Secondo Galbraith «è indubbio che le guerre siano una delle principali minacce
alla civiltà e la vocazione delle corporation alla produzione e all’impiego
degli armamenti nutre e sostiene questo pericolo al punto di ammantare di
legittimità e perfino di eroismo la devastazione e la morte»[6]. Ognuno può facilmente collegare questa
descrizione all’insieme di consiglieri e finanziatori che hanno sostenuto nel
2003 la decisione di George W. Bush di scatenare la guerra in Iraq.
Un conflitto costato più di tremila miliardi di dollari fino al 2010, data di pubblicazione di un lavoro di Linda Bilmes, e del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz teso a mettere in evidenza una concausa rilevante della crisi economica scoppiata nel 2007. Ma ancor prima lo stesso Galbraith aveva esposto in ambiti governativi la propria contrarietà, ragionata da missioni sul posto, alla guerra in Vietnam scontrandosi con i vertici militari e con «gli interessi della grande industria a contratti altamente remunerativi». Quello che interessa notare è anche l’ostilità che ha dovuto sperimentare ancor prima, sempre Galbraith, come responsabile dell’Osservatorio statunitense sugli effetti dei bombardamenti strategici istituito al termine della Seconda guerra mondiale. L’analisi compiuta sulle città tedesche colpite dall’aviazione alleata metteva in evidenza la sostanziale inutilità della sofferenza inflitta alla popolazione civile a causa di bombardamenti strategici che si rivelarono incapaci di fermare lo sforzo bellico nemico. Una conclusione che confliggeva evidentemente con gli interessi dei produttori dei velivoli da guerra.
Un conflitto costato più di tremila miliardi di dollari fino al 2010, data di pubblicazione di un lavoro di Linda Bilmes, e del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz teso a mettere in evidenza una concausa rilevante della crisi economica scoppiata nel 2007. Ma ancor prima lo stesso Galbraith aveva esposto in ambiti governativi la propria contrarietà, ragionata da missioni sul posto, alla guerra in Vietnam scontrandosi con i vertici militari e con «gli interessi della grande industria a contratti altamente remunerativi». Quello che interessa notare è anche l’ostilità che ha dovuto sperimentare ancor prima, sempre Galbraith, come responsabile dell’Osservatorio statunitense sugli effetti dei bombardamenti strategici istituito al termine della Seconda guerra mondiale. L’analisi compiuta sulle città tedesche colpite dall’aviazione alleata metteva in evidenza la sostanziale inutilità della sofferenza inflitta alla popolazione civile a causa di bombardamenti strategici che si rivelarono incapaci di fermare lo sforzo bellico nemico. Una conclusione che confliggeva evidentemente con gli interessi dei produttori dei velivoli da guerra.
Anche la
nostra storiografia, tranne poche eccezioni[7],
non mette in evidenza la critica verso i bombardamenti degli alleati sul suolo
italiano.
Forse anche perché il maggior teorico della potenza aerea senza
limiti è stato il generale italiano di origini sabaude Giulio Douhet, promotore
dell’altare al milite ignoto e autore nel 1921 di un trattato sul dominio dell’aria
che è tuttora una fonte di insegnamento nelle accademie militari, alcune delle
quali gli sono tuttora intitolate. Uno dei passi più citati del suo testo che
va compreso all’interno di un ragionamento più ampio che tiene conto dell’usura
della trincea e dell’utilizzo nella Grande Guerra di armi chimiche, è la
ipotesi dell’impiego tattico di armi sulla popolazione civile [8].
Sempre al nostro Paese spetta il primato di aver compiuto il primo rudimentale
bombardamento aereo nella guerra italo turca del 1911-1912.
I versi di Gabriele
D’Annunzio (“Anche la Morte or ha le sue sementi”) salutarono con entusiasmo
l’impresa dell’aviatore Giulio Gavotti sull’oasi di Tripoli. Come è noto il poeta pescarese sarà tra gli
esponenti più in vista di quella minoranza aggressiva che trascinò, grazie alla
regia del re Vittorio Emanuele III, una nazione riluttante verso il conflitto
del 15-18 che pose le premesse per la nascita del fascismo in un contesto
geopolitico predestinato a precipitare verso la seconda guerra mondiale e
all’epilogo instabile dell’equilibrio atomico.
(primo paragrafo dossier Disarmo Città Nuova editrice)
[1] Emilio Gentile, “Due colpi di pistola, dieci
milioni di morti, la fine di un mondo” Editori Laterza 2014
[2] Anche
allora c’erano economisti come l’inglese Norman Angel che riteneva nel 1909
impossibile una guerra perché si sarebbe rivelata una catastrofe economica per
tutti. Lo zar Nicola II promosse la prima conferenza internazionale della pace
all’Aja nel 1899. Cfr E. Gentile, op.cit
[3] Franco
Cardini “Quell'antica festa crudele Guerra e cultura della guerra dal Medioevo
alla Rivoluzione francese, Il Mulino 2014
[4] Carlo
Jean, Guerra, strategia e sicurezza, Editori Laterza 1997
[5] John K.
Galbraith “L' economia della truffa. I limiti dell'economia globale, la storia
di una crisi annunciata” Bur saggi 2009
[6] ivi
[7] Federica
Fasanotti Saini “ La gioia violata. Crimini contro gli italiani 1940-1946” Ares
2006
[8] «I
bersagli delle offese aeree saranno quindi, in genere, superfici di determinate
estensioni sulle quali esistano fabbricati normali, abitazioni, stabilimenti
ecc. ed una determinata popolazione. Per distruggere tali bersagli occorre
impiegare i tre tipi di bombe: esplodenti, incendiarie e velenose,
proporzionandole convenientemente. Le esplosive servono per produrre le prime
rovine, le incendiarie per determinare i focolari di incendio, le velenose per
impedire che gli incendi vengano domati dall'opera di alcuno. L'azione venefica
deve essere tale da permanere per lungo tempo, per giornate intere, e ciò può
ottenersi sia mediante la qualità dei materiali impiegati, sia impiegando
proiettili con spolette variamente ritardate». Giulio Douhet, Il dominio
dell'aria, Verona, 1932, pagina 24
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