L’atlantismo, inteso come adesione convinta all’Alleanza Atlantica a guida statunitense, non è sempre stato un dogma per la politica italiana. Nell’immediato dopoguerra, ad esempio, è esistito un intenso dibattito tra i cattolici democristiani sull’adesione del nostro Paese alla Nato.
Ne abbiamo parlato, mantenendo uno sguardo sull’attualità, con lo storico Guido Formigoni che è tra i maggiori conoscitori di quel periodo al quale ha dedicato molte opere, come ad esempio, “La Democrazia Cristiana e l’Alleanza occidentale” edita da Il Mulino. Formigoni, professore ordinario presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, è esperto in storia delle relazioni internazionali oltre che di storia politica italiana e di storia del movimento cattolico in particolare. È considerato il principale biografo di Aldo Moro. Coordina il comitato scientifico che si occupa della pubblicazione dell’Opera Omnia del cardinal Carlo Maria Martini.
Avvicinandoci ai documenti risalenti al periodo del
dopoguerra colpiscono i toni molto critici di esponenti di primo piano
della Dc come Giovanni Gronchi (futuro presidente della Repubblica), e
di Giuseppe Dossetti, senza dimenticare l’acutezza delle analisi di Dino
Del Bo, nei confronti della linea assunta dall’allora ministro degli
Esteri, il laico Carlo Sforza, fortemente sostenuta, invece, da Alcide
De Gasperi. Quali furono le linee essenziali e di lunga portata di quel
dibattito interno?
Risponde al vero che la “scelta occidentale” della Dc nel
primissimo dopoguerra non fosse semplice e tranquilla. Un po’ per
ragioni di contingenza: tutto un mondo non era abituato a ragionare in
termini di politica estera operativa, e la delineazione delle
istituzioni e delle politiche dell’Occidente dopo la scelta statunitense
del “containment” verso l’Urss non fu sempre lineare ed
evidente ad osservatori non “interni” (ma anche ad alcuni diplomatici).
Infatti, l’Italia era già nella sfera d’influenza occidentale dal 1943
grazie all’arrivo delle truppe angloamericane e quindi, dopo il 1947, il
problema non era il “se”, ma il “come” starci.
In questo senso si aprì un dibattito molto condizionato da elementi culturali un po’ generali ed enfatici: ad esempio l’idea che il cattolicesimo avesse un compito storico mediatorio fondamentale, oppure che l’Italia “guelfa” (cioè legata al papato) dovesse assumere un ruolo internazionale “al di sopra delle parti”, mentre molti recriminavano ancora contro l’ingiusto trattato di pace del 1947.
Esisteva anche “un tic antiamericano” come afferma qualcuno?
C’erano anche sospetti culturali diffusi verso la nascente
egemonia americana: io non uso il termine antiamericanismo, che penso
sia inadeguato, ma certo un mito americano positivo si affiancava anche a
molte preoccupazioni. Solo pochi esponenti cattolici e democristiani
sostennero presto che il legame con gli Stati Uniti dovesse essere
cruciale.
Nel dibattito all’interno del partito democristiano la questione fu poi più politicizzata. De Gasperi si era reso conto, facendo il ministro degli Esteri dal 1944 nei governi di coalizione ciellenistica (comitato di liberazione nazionale, ndr), che il ruolo degli Stati Uniti sarebbe cresciuto: dopo la rottura dell’alleanza del 1947, e dopo aver colto immediatamente l’opportunità del piano Marshall, si rese conto che l’Italia non poteva che cercar di entrare nella nuova dimensione militare dell’Occidente, cioè il patto atlantico. Ma tentò sempre, anche comunicativamente, di collegare questo orientamento alla nascente e fragile dimensione europea (c’era ancora da reinserire la Germania occidentale). Critici nella Dc contro questa linea furono le minoranze di sinistra, o perché attirati dall’ipotesi neutralista (i gronchiani), o perché chiedevano di anticipare il rafforzamento della coesione europea rispetto all’alleanza militare (i dossettiani). In genere, insomma, la questione era proprio quella di come stare nell’Occidente nascente.
Tralasciando le posizioni dei cattolici entrati nell’orbita del Pci, sappiamo che quel confronto acceso interno alla Dc è stato poi forzato a rientrare nei ranghi della logica obbligata dei due blocchi. Ma le voci ancora dissidenti espressero l’auspicio di una declinazione diversa della politica della Nato grazie al contributo anche dell’Italia. Volendo fare un aggiornamento di quel dibattito interrotto, c’è stato, e fino a che tempo, un contributo originale dell’Italia all’interno dell’Alleanza atlantica? Certo, potremmo dire che il tema dominante divenne presto quello di “come” stare nell’alleanza politica e militare occidentale (il “se”, cioè l’ipotesi neutralista, svanì presto). Lo stesso De Gasperi, in occasione della guerra di Corea, giudicò le posizioni statunitensi rischiose, e prese definitivamente la strada dell’ipotesi di rafforzare l’Europa comunitaria, con la battaglia per la Comunità europea della difesa (Ced) e soprattutto per trasformare la Ced in un embrione di comunità politica. Per decenni la Dc divenne un partito in cui, al di sotto della riconferma continua della fedeltà atlantica, si muoveva un confronto di prospettive piuttosto vivace. Alcuni sposavano le tesi più rigide di un americanismo a tutta prova, sospettoso della distensione, intesa come cedimento nei confronti dell’antagonista sovietico. Altri (non solo pochi dissidenti, ma correnti cospicue del partito), intendevano articolare l’atlantismo con una più marcata identità europea, oppure ancora con una maggiore libertà d’azione nazionale rispetto al Terzo mondo e alle nascenti identità nazionali autonome dai blocchi, o infine con una sottolineatura più decisa degli sforzi per attenuare la guerra fredda e ricostruire margini di convivenza in Europa. Non a caso dalla fine degli anni ’50 si cominciò a parlare di un “neoatlantismo”, che crebbe a divenire la linea essenziale del centro-sinistra. Poi con la solidarietà nazionale il discorso divenne ancor più articolato, data la riduzione dell’opposizione del Pci alla Nato. Ma in sostanza, ci fu sempre un filone di politica estera italiana, guidato dai democristiani (di sinistra, ma non solo: si pensi ad Andreotti), capace di questa articolazione, anche rispetto a casi delicati (sopra tutti, il conflitto israelo-palestinese). Giuliano Ferrara, in un recente articolo, ha definito questa tradizione quella dei “serpenti”, contrapponendola alla recente ripresa di un atlantismo tutto d’un pezzo della coppia Draghi-Mattarella: il suo giudizio di valore è esattamente speculare al mio, ma la sostanza dell’analisi regge bene.
Ci sono elementi attuali di quelle analisi di un europeismo non subalterno alla visione anglo-americana?
A scanso di equivoci, io penso che la crisi ucraina sia frutto di
un’inaccettabile aggressione russa e che la difesa della libertà e
dell’indipendenza sia un bene necessario, ma mi par difficile seguire
Biden fino a sostenere che occorra condurre la resistenza fino a una
“vittoria” sulla Russia e un cambio di regime a Mosca. Quale massiccio
dispiegamento di violenza sarebbe necessario? Rispetto a un quadro
complicato dalla minaccia dell’arma nucleare, poi… Quindi una certa
eredità “neoatlantica” e una prudenza ispirata alla logica primaria
della riduzione della violenza (senza nessun cedimento al male) sarebbe
oltremodo necessaria anche oggi. In questo, papa Francesco mi pare abbia
ragioni da vendere, oltre tutte le denigrazioni che sta incontrando.
Gli eredi attuali di quel Pci, allora schierato con Mosca (e
indifferente, nella sua visione egemonica, ad un confronto vero con le
voci critiche interne alla Dc), sembrano ora i più convinti sostenitori
di un atlantismo di stampo clintoniano interpretato dal segretario di
stato Tony Blinken. Come si spiega, a suo parere, questa posizione? Solo
con la famosa battuta di Berlinguer rilasciata a Pansa, di trovarsi più
sicuro sotto l’ombrello della Nato?
Il Pci di Berlinguer non è che avesse sposato l’atlantismo: la
tesi era sostanzialmente che, volendo loro costruire un socialismo nella
libertà e quindi all’interno dello schema occidentale, non volevano
modificare, al momento, il bipolarismo e accettavano la collocazione
dell’Italia come fattore di stabilità. Non si dimentichi che negli anni
’70 un processo di distensione europea (la convezione di Helsinki, la
ostpolitik della Germania ovest, ndr) sembrava addirittura
avvicinare la possibilità di una revisione progressiva delle grandi
alleanze. Lo ipotizzava specularmente anche Aldo Moro.
Ma molto tempo dopo il crollo del Muro cosa è avvenuto tra gli ex comunisti?
Oggi gli eredi del Pci sono un mondo piuttosto articolato e
sfrangiato. Sono rimaste posizioni di grande equilibrio e saggezza anche
nell’attuale crisi (penso a una figura come Pierluigi Bersani) e altre
più disposte ad accelerare una conversione senza distinzioni sulla
piattaforma della politica estera atlantica, anche nella nuova versione
un po’ enfatica post-24 febbraio. Quello che a me colpisce di più è la
posizione radicale assunta da tanti eredi delle posizioni libertarie
della nuova sinistra, quasi che – forzo un poco l’immagine – il mito
della libertà dell’Ucraina sostituisca ora quello dei vietcong. Al netto
di una posizione psicologica molto diffusa (il complesso
dell’estremismo giovanile ha portato molti a conversioni addirittura
incredibili), tali visioni un po’ troppo rigide mi paiono segnate da una
certa difficoltà a fare i conti con la politica, quasi che l’ideologia
prenda spesso il sopravvento.
Cambiando fronte, il senatore Ignazio La Russa ha rivendicato
una continuità di Fratelli d’Italia con l’Msi nella scelta atlantista
fin dal 1949. Ma la storia dei postfascisti non è, invece, più complessa
fino, ad esempio, all’elezione di Marco Tarchi a segretario del Fronte
della Gioventù poi rimosso d’autorità da parte di Giorgio Almirante,
che scelse per quel posto Gianfranco Fini?
Indubbiamente esiste una complessità. La tradizione neofascista
ha al suo interno un filone “rivoluzionario” che ha sempre vagheggiato
un’Europa antiamericana e spiritualista. L’influenza di Evola o di altri
pensatori radicali contò significativamente. Dal canto suo, la linea
ufficiale del Msi, non dal 1949 (il partito votò contro l’adesione al
patto), ma dai primi anni ’50 in poi, vide prevalere un anticomunismo
che chiedeva di difendere la collocazione atlantica dell’Italia.
Ma le oscillazioni non mancarono, soprattutto in epoca almirantiana. L’episodio del 1977 che lei ricorda sta in quella linea. E non a caso la destra italiana post-1994 – non solo quella esplicitamente post-fascista – ha avuto parecchi ondeggiamenti, anche in rapporto al tema dell’equilibrio tra Europa e Stati Uniti. Dall’enfasi pro-Bush del Berlusconi dei primi anni 2000, che contribuì a spaccare l’Europa, si arriva alle simpatie per Putin nella Lega salviniana. Ora anche Giorgia Meloni nel suo libro uscito l’anno scorso scriveva: «La Russia difende i valori europei e l’identità cristiana». Per cui l’attuale riequilibrio sembra avere basi piuttosto fragili.
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